Viaggio nella Barga del 1909. Una eccezionale testimonianza su Harper’s Monthly (capitolo 3)

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(Da Harper’s Monthly – ottobre 1909. Articolo: Barga” di Mary Heaton Vorse – incisioni di B.J.O. Nordfeldt – traduzione di Mario Moscardini)

Anche la faccia era più magra e affilata di quella di un barghigiano della sua età. In poche parole, era più «parente» nostro che dei suoi conterranei. Che lo riconoscemmo come tale lo dimostra la risposta di uno di noi: «Eri un lanciatore?», «No — rispose timidamente — giocavo out-field». E aggiunse: «Andiamo a casa la set­timana prossima. È stato terribilmente monotono quassù, quest’inverno. Siamo qui da mesi».


Nato in America

E poco alla volta ci raccontò la sua storia. Nell’entusiasmo le parole si susseguivano rapide, a cascata. Il nonno e la nonna stavano invecchiando, e per questo erano tornati. Lui era nato in America, a Boston, dove lavoravano tutti in un calzaturificio. Ci lavoravano parecchi uomini di Barga, di Sommocolonia e di quasi tutti i paesini nei dintorni (fece un gesto per indicare le altre colline e le valle). A Sommocolonia c’era stata tanta di quella neve che raramente aveva potuto raggiungere Barga, e quest’inverno non c’era nessuno quassù che parlasse inglese. Il tono di voce era nostalgico: «A Barga, sì! A Barga c’è la piazza dove giocano a pallone, e a volte ci sono abbastanza ragazzi in visita da permettere una partita, quasi come una partita vera».

Ci disse tutto questo con toccante impetuosità. Noi eravamo la Sua gente. Noi conoscevamo le cose che contano nella vita: il baseball, la frenesia che colpisce — quando non spaventa — lo straniero. Si era così annoiato lontano dai suoi amici! Ma quanto dovuto alla pietà filiale era stato quasi ripagato, e fra cinque giorni sarebbero tornati tutti, ma proprio tutti, a casa. Poi ci diede una stretta di mano con quella fermezza che raramente s’incontra nei latini; bisogna essere nati in un paese anglosassone per saper stringere la mano come si de­ve.

Alla fine, con nelle orecchie l’echeggiare della folla di spettatori di una partita, il ronzio del calzaturificio, il clamore delle strade di Boston e sul viso il vento pungente che arriva da Est, iniziammo la discesa tra gli ulivi.

piazza_angelio_rilfessa-wdtr.gifUna sera al caffè

C’era gente che lavorava la soffice terra cantando, e una vecchietta che veniva su spingendo davanti a sé un maialino con una fettuccia di cotone rosa legata a una delle zampe posteriori. Ogni tanto, forse perché piccolo e non ancora abituato alle salite, il maialino s’impuntava e si metteva a strillare, costringendo la donna ad apostrofarlo come un bambino capriccioso: «Su, piccino, su», e a cercare di fargli riprendere la strada. Le persone che passavano ci auguravano «felice sera» e il vecchio mondo si chiudeva intorno a noi. Ma non per molto. Quella sera, dopo aver percorso strade difficili, dietro una curva stretta ci ritrovammo di fronte alle calde vetrine del caffè. Il grasso padrone ci diede il benvenuto, ci portò il caffè e ci chiese quale fosse il nostro gioco preferito, e avendo scoperto che le carte che conosciamo noi sono diverse da quelle italiane, ci insegnò un gioco ingenuo in cui, invece di far uso di segnali goffi e astrusi, si muove la spalla o si gira il pollice per indicare al compagno le carte che si hanno in mano. Altri nel caffè si fecero intorno per darci dei consigli amichevoli.

Dopo un po’ si unì a noi un signore corpulento, un po’ in là con gli anni, con una bella testa ben piantata sulle spalle quadrate. Ci parlò così: «Signore e signori. Ho saputo che siete americani. Anch’io lo sono. Anch’io sono americano».

Tirò fuori un bel portafoglio dal quale estrasse, macchiato e logoro, un vecchio certificato di cittadinanza degli Stati Uniti e lo aprì davanti a noi sul tavolo. «Sono molto contento di incontrare degli americani» — proseguì. Fu a questo punto, mi pare, che ci demmo tutti la mano. «Sono stato moltissimo tempo in America, a Chicago: vent’anni. Vent’anni fa avevo un bel saloon a State Street, poi mia madre si era fatta molto vecchia e io e mia moglie siamo tornati a vivere a Barga. C’è una bella differenza tra Barga e Chicago, ma anche Barga va bene. Vi piace Barga?». Gli dicemmo di si.

«La campagna qui intorno è molto bella, ben diversa da quella di Chicago. Immagino che Chicago sia cambiata parecchio dai miei tempi. Leggo i giornali, e ho un cugino che mi scrive. Stanno costruendo molto a Chicago. Avete visto i Della Robbia a Barga, giù ai Frati? Sapete, i frati francescani, intendo. C’è un Della Robbia come non ce n’è da nessun’altra parte – né a Firenze, né a Pistoia. In nessun altro posto c’è un Della Robbia come quel San Francesco, con le stimmate, è uno smalto meraviglioso. Ecco cosa possiamo fare. Domani, io e il maestro di disegno — questo signore qui accanto, che a Barga dirige alla scuola statale di disegno – vi portiamo in giro, a vedere tutti i Della Robbia».

I Della Robbia

A questo punto nacque una discussione animata fra tutti i presenti sui Della Robbia di Barga. Sarebbe stato possibile entrare in un certo palazzo? — si chiedevano – e il nostro amico insisteva nell’affermare che si sarebbe trovato il modo di entrare anche dalle Suore di Santa Elisabetta. Ma il maestro di disegno ne dubitava.

«Vedete – disse il nostro amico – lui pensa che le suore di Santa Elisabetta siano tutte in ritiro per via della Settimana Santa. Forse dovrete rimanere fin dopo la domenica di Pasqua». Su questo erano tutti d’accordo. Non era assolutamente possibile lasciare Barga senza prima aver visto quel particolare Della Robbia.

Dei dieci uomini presenti sette parlavano l’inglese e tutti con accenti diversi. Uno balbettava parole idiomatiche scozzesi – aveva fatto il gelataio a Glasgow per una stagione – un altro aveva una leggera intonazione cochney;; due parlavano l’americano; gli accenti degli altri non li riconoscemmo. perché provenienti dalla Nuova Zelanda e dall’Australia. Così rimanemmo fino a tardi nel piccolo caffè dal soffitto a volta a parlare di paesi lontani e dei vari mestieri dei barghigiani. E per quale motivo erano rientrati? La risposta a questa domanda era piuttosto monotona: per via dei vecchi. «La madre di mia moglie stava invecchiando», oppure «Mio padre voleva tornare a casa, ha un po’ di terreno e voleva coltivarlo prima di essere troppo vecchio». Anche se avevano fatto fortuna, anche se si trovavano all’altro capo del mondo, anche se amavano la terra di adozione, quando i vecchi lo richiedevano tornavano a casa. Era dato per scontato, come due più due fa quattro, e non si discuteva.

Il richiamo della terra

E mentre parlavano, il nostro paese ci si presentava sotto un altro aspetto. Lo vedevamo non come un posto opprimente, rumoroso, quale l’America spesso appare ai suoi stessi figli, ma come lo vedevano loro: una terra giovane, allegra, dove si poteva lavorare bene, piena di speranze e di promesse. Nel caso loro — dotati com’erano dello stesso spirito audace che aveva permesso a Silvio e al bimbo di affrontare fiduciosi le insidie e le difficoltà di uno shampoo — promesse mantenute.

(Continua)

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Commenti

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  1. pier giuliano cecchi


    R: Viaggio nella Barga del 1909. Una eccezionale testimonianza su Harper’s Monthly (capitolo 2)
    Bravo Luca. Pagine stupende, che in qualche misura conoscevo, ma comunque più che lodevole l’iniziativa della pubblicazione. Bellissimi i disegni, che meriterebbero essere pubblicati in un prossimo calendario con l’aggiunta degli scritti. Pier Giuliano Cecchi

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