L’anarchico Gaetano Bresci: un caso che brucia ancora?

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Monza 29 luglio 1900. A sera Umberto I cade sotto i colpi di Gaetano Bresci, l’anarchico che venne dall’America.
L’Italia dinastica è scossa, come scosse furono quelle masse di gente, scese in piazza per protestare contro il rincaro del pane e il diritto alla personalità civile; protestando ancora contro il disumano carico fiscale che gravava sulle loro teste.

1894 in Sicilia; Lunigiana 1895; Milano 1898: Sicilia, Puglia, Marche, Romagna, Lazio, Umbria, Toscana, Lombardia … proteste contadine, operaie, ma più che altro protesta della miseria. Per contro regimi di stato d’assedio, repressioni, arresti, sequestri di articoli specialmente all’Avanti, la voce che più si stava spendendo in favore dei cittadini.

Le classi popolari vedono nel governo un nemico e le classi dirigenti, non avendo più fiducia nelle proprie forze, nella propria capacità di governare – si veda gli scandali delle banche e le fallimentari imprese coloniali- si volgono alla repressione, dando carta bianca ai generali.
Nel 1894 un generale degli Alpini aveva sedato i moti di Massa Carrara con undici cavatori uccisi e numerosissimi feriti, ma il culmine si ebbe con i moti del ’98 a Milano, in cui oltre alle normali forze di polizia fu chiesto il massiccio intervento dell’esercito che, sotto la guida del generale Bava Beccaris, soppresse la protesta dei cittadini a colpi di mortaio, cannoni caricati a mitraglia, schioppettate di fucili e cariche della cavalleria.

Alla fine le morti ufficiali saranno 80 e 450 i feriti. Una strage che competeva con le gesta del generale Radetzky, ma questi era un austriaco.
Furono soppressi i giornali e nel mirino del Beccaris, come disse Gaetano Arfè, c’erano i socialisti e l’Avanti. Si sciolsero, infatti, i circoli socialisti, repubblicani, le società di mutuo soccorso, le camere del lavoro e l’Umanitaria, un’organizzazione creata per promuovere l’educazione dei lavoratori.

La borghesia al direttore de’ Il Corriere della Sera impone le dimissioni perché aveva scritto: “Che queste manifestazioni non significano affatto la rivoluzione ma esprimono l’esigenza di una migliore condizione di vita”.

Filippo Turati è arrestato con Anna Kuliscioff e i deputati Costa e Bissolati, ma non solo questi eminenti socialisti. Infatti, anche repubblicani come De Andreis, clericali come don Alberterio e anarchici, oltre a settecento milanesi che furono condotti al Castello Sforzesco.
A Filippo Turati toccheranno dodici anni di carcere.

Al pacificatore di Milano, generale Bava Beccaris, Umberto I spedirà il suo rallegramento e la più alta onorificenza del Regno: la Croce dell’Ordine Militare di Savoia “per i preziosi servigi resi alle istituzioni e alla civiltà”.

Arrigo Petacco, nella biografia del Bresci: “L’anarchico che venne dall’America. Storia di Gaetano Bresci e del complotto per uccidere Umberto I”, definisce questa espressione del monarca “Un gesto inutile, un applauso alla violenza, che due anni dopo gli sarebbe costato la vita”. Continua Petacco dicendo che se anche il rombo dei cannoni del Bava Beccaris giunse in America, a Peterson dove viveva il Bresci –proveniente da New York e qui da Barga (Ponte all’Ania) (1) – con un poco di ritardo, le manifestazioni di protesta, specialmente in seno ai circoli anarchici, non si poterono contare. Bresci nell’apprendere la notizia della strage pianse amaramente e imprecò contro il “Re assassino”.

Come osservò lo storico Giorgio Spini in un articolo per La Nazione del 1986, dopo tante fucilazioni senza processo “Il meno che poteva capitare era che qualcuno restituisse a Sua Maestà un po’ del piombo da lui dispensato tanto generosamente”. Analisi del nostro ieri, ma che nel 1900 mosse dall’America Gaetano Bresci, che a Monza rese a Umberto I quel poco di piombo.

Certamente anche a noi piacciono più gli uccisi che gli uccisori e le vittime del Re Buono, più che il Bresci, meritano d’essere innalzate sull’altare del sacrificio italiano, perché è con il loro contributo di sangue che l’Italia si avviò da un governo dinastico a quello delle riforme sociali ispirate dal partito socialista e da Filippo Turati.
A seguire, da Odi e Inni di Giovanni Pascoli, la poesia: “Al Re Umberto”.

(1) Gaetano Bresci visse anche a Ponte all’Ania, dove lo chiamavano “IL PAINO” per la sua eleganza. Qui ebbe anche una relazione con una donna del luogo, cui si dice nacque una figlia.

Gaetano Bresci secondo l’enciclopedia Treccani:
… nel 1893 e 1895, quando fu confinato per oltre un anno a Lampedusa insieme ad altri 52 anarchici di Prato, in applicazione delle leggi repressive crispine. Fu liberato, insieme ai suoi compagni, nel maggio 1896, grazie ad una amnistia concessa per il disastro di Adua. Dopo aver cercato inutilmente lavoro a Prato, SI TRASFERI’ A PONTE ALL’ANIA, UNA FRAZIONE DI BARGA nell’alta Lucchesia, dove gli venne offerto un posto nello stabilimento laniero “Michele Tisi e C.”. Alla fine del dicembre 1897 il B. s’imbarcò per gli Stati Uniti giungendo a New York il 29 gennaio seguente …

AL RE UMBERTO I

In piedi, sei morto, tra i suoni
dell’inno a cui bene si muore:
in piedi: con palpiti buoni
nel cuore, colpito nel cuore:

tra grida, più fiere che squilli,
di Viva! sei morto: ed al vento
tra gli altri cognati vessilli
batteva il vessillo di Trento:

sul campo; nell’ultima sera
guardando, tra i fremiti lieti,
che cosa, o Re morto? Una schiera
di giovani atleti.

II

Sul campo, sei morto, una mano
levando alla fronte severa,
vedendo da presso e lontano,
vedendo, nell’ultima sera,

nell’ultimo istante, con gli occhi
guizzanti una luce corusca
di lancie d’ulani, con gli occhi
velati dall’ombra di Busca,

vedendo — là tra la minaccia
del nembo luceva una stella —
sei morto vedendoti in faccia
L’Italia novella.

III

Viveva l’Italia novella,
viveva! e tu, Sire canuto,
vedendo ch’ell’era assai bella,
levavi la mano al saluto;

levavi al saluto la mano,
scoprendoti il cuore… Nel cuore
te un uomo — non era un ulano —
trafisse… oh! il Quadrato che muore

per te!… Il gran mare ha il suo fondo:
Re morto, tu eri mortale:
chi grande nel mondo?… Nel mondo,
di grande, c’è il Male!

IV

C’è il Male che piange, che prega,
ch’ha freddo, ch’ha fame; e quel Male
che accusa il fratello e rinnega
la madre; quel Male ch’è male.

Il Male è sol quello che ride
d’un lugubre riso di folle;
il Male è sol quello che uccide,
che tempra di sangue le zolle,

le zolle che poi gli empiranno
la bocca, al Caino… ed esangue
poi sente in eterno che sanno
l’amaro del sangue.

V

Il Male è più grande di Dio!
Dio scende; ma l’uomo infrange;
Dio passa, Dio dice «Son io
che piango in ogni uomo che piange!»;

ma presso il banchetto di vita
c’è un pianto che ancora non varia;
ma sordo trapassa il levita
vicino al Gesù di Samaria;

ma niuno, nel mondo delle ire,
di fronte al comune destino,
niuno ama piuttosto morire
Gesù, che Longino.

VI

Oh! il Male! bramito di belva
che in fondo al suo essere cupo
ravvisa l’antica sua selva,
ravvisa il nativo dirupo;

e fiuta, la belva; e già crede
che sia l’avvenire che odora
nell’ombra; e d’un lancio si vede
postato all’agguato d’allora;

e l’ali vuol mettere e tenta
l’abisso dei cieli, la fiera;
e mostro, con l’ali, diventa,
Vampiro e Chimera…

VII

Tu Re, non vedesti. Con gli occhi
guizzanti una luce corusca
di lancie d’ulani, con gli occhi
velati dall’ombra di Busca,

con gli occhi sì fieri e sì mesti,
davanti una giovane schiera
d’atleti, tu non la vedesti
la ingorda di sangue Chimera

notturna, che sibila ed alia
venendo e tornando dai morti…
Tu, Re, salutavi l’Italia
de’ Liberi e forti:

VIII

l’Italia che vive nel sole,
che vuole i suoi rischi e i suoi vanti,
le marre e le trombe, le scuole
pensose e i cantieri sonanti:

l’Italia che spera, e s’adopra
concorde al suo lucido fine,
che foggia il suo fato, là, sopra
le incudini delle officine:

l’Italia che già si disserra
nel grande avvenire il suo varco,
e avanti, sia pace sia guerra,
San Giorgio o San Marco!

IX

Lui, non lo vedesti: vedevi
le vite d’Italia al lavoro:
un grido, Fa quello che devi!
correva sereno tra loro.

Vedevi le inerti paludi
domate da squallidi eroi,
che, come gli eroi sugli scudi,
sul fieno riportano i suoi…

e lungi in un ultimo mare,
sott’aspre costellazïoni,
vedevi tre navi lottare
coi gravi monsoni.

X

Va, giovane Italia: t’aspetta,
ti chiama il tuo fato con voce
d’angoscia. O salute o vendetta,
s’hai l’aquila antica e la croce,

va, portala! L’aquila vede
dall’alto la vasta pianura.
La croce… e tu fanne, alla fede
degli avi, la spada più pura!

Va, memore Italia, tra i primi
tu giunta per ultima. Doma,
costringi, e rialza e redimi!
va, giovane Roma!

XI

Lui… non lo vedesti. O Re forte,
nell’anima calma e serena,
nel cuore cui pure la morte
lasciava due palpiti appena,

lui, non lo vedesti; vedevi,
lontano lontano, in un mare
di ghiacci, tra pallide nevi,
tra il cenere crepuscolare,

tra sibili sordi di vento,
tra l’ombra e il silenzio, là, solo,
vedevi un piroscafo lento
dirigersi al Polo.

XII

Va!… all’Ideale la barra!
Va!… all’Ideale ch’è un punto,
ch’è un nulla; e la morte lo sbarra;
ma quando sei giunto… sei giunto!

Va, principe giovane e giovane
Italia! Nel pelago eterno,
va, cerca il tuo Polo; va, trova
nel mondo infinito il tuo perno!

Va, in mezzo alla grigia bufera,
va, dove s’incontra e s’indora
con questa che sembra una sera,
la subita aurora!

Giovanni Pascoli (Odi e Inni)

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