La Pasqua di una volta

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Mancano ancora alcune settimane a Pasqua e sotto la fredda luce dei neon del supermercato queste uova di cioccolata e queste colombe che ammiccano in un modo insistente e chiassoso mi sembrano fuori tempo e fuori luogo.
Mi fermo e, come in una dissolvenza, la mia mente torna a un tempo lontano in cui la Pasqua era ancora una festa spirituale e non un fatto prevalentemente consumistico come adesso.
Tutto iniziava con la benedizione delle case, un rito molto sentito dalla gente che lo aspettava con grande devozione.
Il prete, seguito dai chierichetti vestiti di bianco, pronunciava la formula di rito, e poi spargeva l’acqua benedetta con rapidi e solenni colpi di aspersorio, mentre gli abitanti pregavano in ginocchio. Benché tutti sapessero che “la benedizione passa sette mura”, le massaie pretendevano che venisse benedetta ogni stanza affinché tutti vedessero come erano state brave a rendere brillante tutta la casa.
Siccome rifiutare i dolcetti e il bicchierino di liquore offerto ogni volta sarebbe stato imperdonabile, spesso accadeva che, alla sera, prete e chierichetti rientrassero in canonica molto più allegri di quando erano partiti.
La Settimana Santa aveva inizio con la messa solenne della Domenica delle Palme nella quale si celebrava l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme e venivano benedetti i ramoscelli di ulivo che ognuno avrebbe portato a casa per ornare i crocefissi che erano appesi alle pareti.
Tornati a scuola il lunedì mattina, dopo aver ricevuto la visita del parroco don Ferretti che ci parlava della fine della Quaresima e dell’importanza della Pasqua, noi ragazzi ritagliavamo delle nere rondini di cartone che venivano applicate ai vetri delle finestre in segno di gioioso ottimismo.
Specialmente quando la Pasqua era bassa, il tempo poteva volgere al brutto e pioveva; allora le mamme e le nonne dicevano ai bimbi che il cielo era triste perché si ricordava della passione di Cristo.
Intanto nelle case iniziava la preparazione di quelle crostate di riso e di semolino che, oltre alla tradizionale pasimata, erano parte integrante del rito laico che accompagnava quello religioso, a volte compenetrandolo.

GIOVEDÌ SANTO
Nel pomeriggio del Giovedì Santo le celebrazioni entravano nel vivo con l’inizio del solenne Triduo Pasquale della passione, morte e resurrezione di Cristo. La sera veniva celebrata la messa in Cena Domini, nella quale si ricordava l’ultima cena di Gesù, l’istituzione dell’eucaristia e del sacerdozio.
In un’atmosfera di raccolta partecipazione, il solitamente burbero don Ferretti s’inginocchiava davanti ad alcuni parrocchiani per la suggestiva lavanda dei piedi come aveva fatto Gesù nell’ultima cena.
Alla fine della messa i crocefissi restavano velati e gli altari senza ornamenti, eccettuato quello dove venivano conservate le ostie consacrate durante la messa per la comunione del giorno seguente.
Le campane venivano saldamente legate affinché nell’aria non si librasse neanche una nota e la loro funzione veniva svolta dalla “traccola”, un arnese a manovella che produceva un suono triste e sgraziato.

VENERDÌ SANTO

Ricordo il Venerdì Santo come un giorno di grande tristezza; alla radio potevamo ascoltare solo programmi di preghiere, triste musica sacra o seriose trasmissioni culturali. Ogni canzone, ogni accenno di allegria era bandita e anche le naturali manifestazioni di energia di noi ragazzi venivano prontamente redarguite da qualche adulto dallo sguardo serio.
Siccome era “vigilia nera”, sulle tavole faceva la propria comparsa quel baccalà messo ad ammollare giorni prima.
In un giorno che sembrava non finire mai, c’era da essere compostamente tristi ad ogni costo e
neanche le vetrine addobbate e le bestie infiorettate di camelie appese nelle macellerie riuscivano a rallegrare un’atmosfera che si manteneva pesantemente cupa.
Nel pomeriggio si andava in chiesa per l’adorazione dell’Eucarestia, ma noi ragazzi ci stavamo il meno possibile perché quel grosso sepolcro nero e sinistro posizionato al centro della navata era una presenza lugubre che ci inquietava.
Dopo cena, in un paese buio e punteggiato dai lumini esposti sui davanzali, aveva luogo la tradizionale e suggestiva Via Crucis.
Ancora adesso mi rivedo uscire dalla fila dei fedeli e correre in avanti per vedere con orgoglio il nonno Giulio che, con fare solenne e passo cadenzato, teneva alto il pesante gonfalone della chiesa aprendo la processione.

SABATO SANTO
La giornata del Sabato Santo scorreva lenta e senza impegni religiosi e solo gli scoppi che noi ragazzi facevamo “col potassio” spezzavano la monotonia delle lunghe ore che scandivano il periodo in cui Gesù si trovava nel regno dei morti. Le pasticche di clorato di potassio erano un rimedio per il mal di gola dal sapore pestilenziale che compravamo simulando inesistenti infiammazioni del cavo orale alle quali il Menichini, storico commesso della farmacia, fingeva di credere strizzandoci l’occhio.
Tritandole finemente e mescolandole con lo zolfo delle “rotelle” usate per fumigare le botti, ottenevamo una miscela esplosiva di sicuro effetto.
In una gara a chi faceva il botto più forte, mettevamo con maestria la miscela tra due sassi piatti e con una robusta “calcagnata” davamo il via allo scoppio che, specialmente negli androni delle case, produceva una botta secca che ci faceva scappare sghignazzando inseguiti dalla furia degli inquilini.
Non di rado succedeva che, esagerando con la miscela, ci si frantumassero i tacchi delle scarpe e allora al ritorno a casa gli scapaccioni erano assicurati.
A tarda sera fuori dalla chiesa veniva allestito il Fuoco Santo dal quale, dopo la benedizione da parte del sacerdote, veniva acceso il grosso e decorato cero pasquale. Ricordo che mentre la luce delle fiamme si rifletteva negli occhiali del Risaliti, insostituibile e indaffaratissimo sacrestano, accendevamo la candela che, poi, avremmo portato a casa, magari per confortare una persona inferma.
Entrando in chiesa,con le nostre candele che conferivano tonalità calde anche gli algidi marmi degli altari e della balaustra, trovavamo le acquasantiere vuote perché nel corso della funzione si sarebbe proceduto alla benedizione di quell’acqua che avrebbe riempito nuovamente le conche.
Se in paese nei giorni precedenti c’era stata qualche nascita, si aspettava questa notte per celebrare il rito del battesimo con la nuova acqua santa.
A mezzanotte, compiuta la solenne liturgia, venivano sciolte tutte le campane e mentre sciamavamo felici sul sagrato, l’aria si riempiva dei suoni festosi che annunciavano al mondo che Gesù era risorto.

DOMENICA DI PASQUA
Il giorno di Pasqua non era caratterizzato da precetti religiosi da seguire obbligatoriamente o da particolari usanze.
Il personale maschile della casa si svegliava sbadigliando, mentre le donne, tornate dalla chiesa dove avevano fatto benedire le tradizionale uova sode colorate, spentolavano già a pieno ritmo per preparare il pranzo che secondo la tradizione doveva comprendere almeno i tortellini in brodo e l’arrosto di agnello con contorni vari.
Mentre la cucina andava a tutto vapore, il capofamiglia e i figli maschi, uscivano per fare un po’ di baldoria prima di pranzo.
Sotto lo sguardo bonario dell’Aladino dietro il bancone, il bar Centrale era un allegro carosello di vestiti eleganti, capelli imbrillantinati, baffi curati, cravatte impeccabili e scarpe talmente lucide da far male agli occhi; solo le mani parlavano del lavoro duro e onesto col quale venivano sfamate le famiglie.
Rientrati a casa, in un clima di allegra operosità e con stuzzicanti aromi che aleggiavano nell’aria, si sedevano alla tavola apparecchiata con la tovaglia bella e il servito buono.
Mentre il pranzo andava avanti in allegria, si avvicinava il momento dell’apertura dell’uovo di cioccolata e l’attesa di scoprire quale sorpresa contenesse si faceva palpabile. Noi bimbi speravamo in qualche piccolo gioco, mentre le ragazze più grandi sognavano di trovarci un braccialettino o un anellino messi dentro con abilità dal fidanzato.
Intanto, nel buio del garage, la Cinquecento scalpitava nell’attesa della gita dell’indomani, ma questa è un’altra storia…

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