Peter, sergente esemplare

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Come giornalmente consueto, un gruppetto di pensionati sta passeggiando per il paese quando, incrociando un signore che procede in senso opposto, uno di questi lietamente gli si rivolge:

“Federico, che sorpresa: sei proprio tu?”.

Al che l’interpellato risponde, con entusiasmo:

“Certo, Carlo: hai visto bene, ed altrettanto anch’io ti ho riconosciuto, sono passati tanti anni senza più niente sapere uno dell’altro, quindi è segno che ancora la vista e la memoria funzionano!”.

I due si abbracciano calorosamente chiedendosi reciprocamente notizie personali, delle loro famiglie; poi infine Carlo, un forte anziano, però malandato e claudicante, fa le presentazioni:

“Questi sono miei amici paesani; e questo è stato un mio vecchio compagno di lavoro, nello stabilimento di Fornaci di Barga, ed è del comune di Coreglia”.

Indi aggiunge:

“A proposito, Federico: sei compaesano di Luigi, anch’esso nostro ex compagno di lavoro e buon amico: sta bene?”.

A detta domanda l’interpellato si fa serio, rispondendo mestamente:

“E’ morto, un decina di anni fa, esattamente nel dicembre del ’99, dopo una breve, brutta malattia. Negli ultimi anni di vita si era ritirato dal frequentare il bar, il circolo, e preferiva coltivare l’orto e stare in casa; ma quando gli capitava l’occasione, sempre più parlava volentieri con impegno delle sue vicissitudini, subìte nel tempo di guerra”.

“Sì – commenta Carlo -, ricordo che anche al lavoro, nelle pause dei pasti, spesso parlava volentieri del suo ultimo, drammatico, periodo di servizio militare o, meglio, di prigioniero. Ciò era forse per lui come uno sfogo, onde alleggerire dei ricordi dolorosi. Ma per il resto era una persona normalissima, di animo buono, ottimo lavoratore”.

“Bisogna che vi lasci – riprende Federico -, ho un appuntamento al centro sanitario, dalla fisioterapista, onde ripristinare il movimento normale del braccio sinistro, causa una brutta distorsione dopo una caduta. Anzi, dato che per questo dovrò ritornare più volte a Fornaci, mi farà piacere incontrarti di nuovo, con più tempo a disposizione. Ti saluto, e saluto tutti voi..”.

“Buona giornata!”, gli rispondono.

I nostri riprendono a camminare e subito qualcuno chiede a Carlo:

“Parlaci di Luigi, della sua odissea nel tempo di guerra”.

“Volentieri – risponde l’interpellato -, è una storia che certamente merita di essere conosciuta; ma certi particolari, certi dettagli, come questo amico minuziosamente citava, non li ricordo più, dato il tanto tempo trascorso. Dunque: Luigi, inquadrato nel regio esercito italiano, si trova in Grecia quando, l’otto settembre 1943, l’Italia chiede l’armistizio agli angloamericani. I tedeschi allora gridano al tradimento e, con la forza, obbligano i nostri soldati a dichiarare se vogliono continuare a combattere al loro fianco, oppure no. Chi rispondeva affermativamente al primo caso, veniva inquadrato nell’esercito germanico; chi invece optava per il secondo, veniva fatto prigioniero e destinato a lavoro coatto. Luigi, rifiutando ai tedeschi di prestare servizio militare, fu fra quelli, in grande maggioranza, che furono deportati in appositi campi di concentramento, i tristemente famosi ‘lager’”.

“So, dalla storia – interviene un giovane alto e magro, munito di occhiali -, che i tedeschi in quei frangenti uccisero tanti e tanti soldati italiani; ed a Cefalonia ne fecero una strage, fra i quali anche i loro ufficiali. Forse perché facevano prima a uccidere che a deportare?”.

“Non non credo – riprende Carlo -; sì, per codesti avvenimenti ci furono dei combattimenti, ma, appunto, i più gravi avvennero in quell’isola greca del mare Ionio. Torniamo al racconto: i nostri prigionieri, brutalmente trattati dai loro carcerieri, vengono ammassati e rinchiusi in vagoni merci di un convoglio ferroviario, per un lungo penoso viaggio di giorni e giorni, fermandosi ogni tanto in qualche stazione e rifocillati alla meglio con scarso e pessimo cibo, trattati come fossero bestie. Infine, giungono alla destinazione stabilita, in Polonia, e vengono acquartierati in apposito campo di concentramento, per essere adibiti ad ogni genere di lavoro, coatto, nei campi, nei boschi, a riparare linee ferroviarie danneggiate dai continui bombardamenti aerei, a sgombrare macerie nelle città colpite, data la mancanza del personale tedesco, quasi tutto impegnato nel servizio militare. Infatti erano in molti, della stessa famiglia padri e figli, chiamati alle armi e, verso la fine della guerra, persino i nonni! Quindi, questi prigionieri gli servivano effettivamente, gli erano utili; a differenza di quelli, soprattutto ebrei civili, rinchiusi in altri campi, i lager, destinati ad essere uccisi da una follia criminale collettiva. Luigi ed i suoi commilitoni vengono subito impiegati a tagliare alberi in un bosco ed altri lavori agricoli, lavorando circa dieci ore al giorno, mangiando pietanze scarsissime e disgustose; ma, quel che è peggio, subendo angherie da parte del sergente, un giovane pieno di orgoglio, che gli aveva in custodia, il quale per un nonnulla gridava contro i prigionieri, obbligando i suoi soldati ad usare la frusta per stimolarli a lavorare con più impegno. Era una vita insopportabile, ed i nostri non ne potevano più. La sera, nel capannone, quando si coricavano sulle brandine, sui pagliericci, c’era chi piangeva, chi inveiva, chi pregava: ‘Come si può vivere così?’, si lamentavano. Fortunatamente, dopo qualche mese ci fu un cambio nel personale dei carcerieri: i più giovani, forse per inviarli al fronte russo dove l’armata rossa stava avanzando, furono sostituiti da anziani, ed anche il sergente ebbe il cambio con nuovo pari grado. E la fortuna consisté proprio in questo, perché il nuovo sergente era di tutt’altro carattere del precedente, ed i nostri soldati compresero subito che era buono di animo, anche se rigido nell’esplicazione delle sue funzioni. Il suo nome era ‘Peter’; ma loro lo chiamavano ‘Pietro’, in italiano, da lui ben accetto. Di statura un po’ più bassa di quella tedesca media, un po’ grassottello con capelli quasi completamente imbiancati che dimostravano la sua età, di oltre cinquant’anni. E si arrangiava nel parlare in italiano: una volta, amichevolmente, con un gruppetto di prigionieri fra cui Luigi, disse: ‘Qui, in questo campo, per noi tedeschi e voi italiani, la guerra è già finita, siamo in attesa che finisca per davvero e poter tornare alle nostre case, alle nostre famiglie’, e confidò loro che la sua residenza era in Renania, dove vivevano la moglie, la figlia, una nipote, mentre il genero era a combattere in Italia. Insomma, con Pietro la vita, pur essendo ancora estremamente penosa, era diventata più vivibile, anche se non mancavano occasioni di punizioni dei reclusi, per qualche loro addebitata mancanza. Luigi me ne citò una, – continuò Carlo -, che poteva finire nel peggiore dei modi. Un giorno, terminata la giornata lavorativa nel bosco, prigionieri e sorveglianti fecero ritorno al campo ma, alla conta del numero, mancava un nostro commilitone. Scattò l’allarme e Peter mandò una pattuglia armata, accompagnata da alcuni cani, alla ricerca del mancante; poi chiese a noi informazioni in merito ma, alla nostra risposta che non ne sapevamo nulla, si rabbuiò in volto dicendoci: ‘Auguriamoci che venga rintracciato e riportato al campo, che altrimenti potrebbe scattare la rappresaglia contro di voi’. Tutti rimanemmo in apprensione e finalmente, dopo un’ora circa, il reparto ritornò al campo con il fuggitivo, ammanettato. Tirammo un sospiro di sollievo, ma intanto l’uomo, interrogato con violenza, si giustificò dicendo: ‘Ebbi un urgente bisogno corporale e mi allontanai di corsa dal gruppo, senza essere notato, verso un luogo appartato, nella boscaglia. Quando ebbi finito ripresi il cammino verso il posto di lavoro, però sbagliai sentiero e, quando vidi da lontano un villaggio, capii che ero da un’altra parte; allora tornai indietro, ma stava imbrunendo e non mi riusciva orizzontarmi. Non sapevo che fare, quando infine sentendo abbaiare dei cani, mi indirizzai in quella direzione, e così sono stato arrestato’. Un ufficiale, presente all’interrogatorio, chiede al sergente ‘Sarà vero quel che dice quest’uomo?’. ‘Penso proprio di sì, signor tenente’. ‘Allora si farà il verbale del fatto e lo archiviamo nel nostro ufficio, senza denunziarlo al comando superiore’, conclude”.

“Civilissimo comportamento – interviene Mercede, una anziana maestra, nubile -, quello del sergente, che fa divenire un pericoloso episodio di guerra in un esempio edificante; ma riprendi pure a narrare, Carlo: il racconto di Luigi è molto interessante”.

Ma uno dal gruppo propone:

Fermiamoci a questo bar, a sorbire qualcosa che, comodamente seduti, si ascolta meglio”.

“Ben detto”, fanno gli altri, accomodandosi ai tavolini.

Dopo aver sorseggiato la bevanda, l’oratore continua la narrazione di Luigi.

“Passano i mesi, siamo nel luglio ’44, e l’esercito russo sta avanzando in Polonia. Allora i tedeschi trasferiscono i nostri prigionieri in altro campo di concentramento, ancora in Polonia, ma prossimo al territorio germanico, con lo tesso personale di sorveglianza. La struttura è più piccola della precedente, ed anche i militari, delle due parti, sono diminuiti; certamente sono stati dirottati in altra località. La disciplina è sempre la stessa, ma i cibi ancora più scarsi; epperò, essendo i sorveglianti in numero ridotto, quando arriva il camioncino con il rifornimento dei viveri, per le operazioni di scarico ci utilizzano anche noi prigionieri. Con queste occasioni qualcosa, di sfuggita, si mette in bocca, ed anche oltre. Una volta ad uno di noi viene notato che ha qualcosa in tasca e scoprono che ha due mele. Al che le guardie gliele tolgono, mentre protesta: ‘Ho fame, come sempre…’. Il sergente Peter sembra commuoversi ma poi, incrociando lo sguardo con quello dei suoi subalterni, si irrigidisce dicendo: ‘Bisogna rispettare le regole, anche considerando che pure noi sorveglianti siamo a minima razione, pressoché come voi’. Ma non infligge alcuna punizione a quel poveretto. Questo campo è situato vicino ad una città, e in un primo tempo veniamo utilizzati a riparare la linea ferroviaria, danneggiata dai bombardamenti; poi ci inviano a lavorare in uno stabilimento industriale. Per noi è una novità ma, una volta dentro, notiamo, con una certa sorpresa, che il personale è composto solo da giovanissimi, da vecchi e da donne. Già: gli uomini, giovani e meno giovani, sono a combattere chissà dove! Finalmente, una novità buona: nei giorni che i nostri lavorano nella fabbrica, usufruiscono del pasto alla mensa aziendale, che è assai migliore di quello del campo; perciò sono contenti di andarci. Così passano altri mesi, siamo nel dicembre ’44, e l’Armata Rossa, incalzando le truppe dell’Asse in continua ritirata, ma sempre combattendo da una linea difensiva all’altra, sta avvicinandosi al territorio della nazione germanica. Di conseguenza Luigi e tutti gli altri vengono trasferiti in altro campo di lavoro, addirittura nei pressi di Berlino. Anche questa volta diminuisce il numero dei reclusi e di quello dei carcerieri: di quest’ultimi quelli che restano sono i più anziani, compreso Peter che, fra tutti, è il meno vecchio. Peggiora ancora il vettovagliamento: meno viveri, meno cibo, rifornimenti che arrivano giorni dopo lo stabilito. Un giorno, alle nostre rimostranze, il sergente ci mostra le cucine, il magazzino: ‘Vedete quel che c’è rimasto? Ben poco, bisogna quindi metterci a razione sia di questo che di quello che arriverà, speriamo presto e, a questo punto, per tutti uguale, tanto per noi che per voi’. Comprendiamo il grande gesto del sergente e: ‘Grazie, Pietro’, gli diciamo, sinceramente. Da questa nuova residenza, con camion logori e sgangherati, ci portano in città, a Berlino, a togliere i detriti delle case distrutte dalle bombe, onde liberare le strade da siffatte ostruzioni, ma la polvere delle macerie ci toglie il respiro; oltre la fatica quindi subiamo anche questo disagio, cagionevole per la salute. E sotto bombardamenti sempre più frequenti, che ci obbligano a correre verso il più vicino rifugio antiaereo, per riprendere il lavoro al suono delle sirene del cessato allarme. Trascorrono altri mesi, siamo nell’aprile ’45, ed il fronte si avvicina alla capitale germanica. Dal nostro campo udiamo in lontananza le deflagrazioni delle artiglierie dei due schieramenti, mentre aumentano le incursioni aeree, per cui è un continuo andirivieni, giorno e notte, dalle camerate ai rifugi, e viceversa. Un giorno, con sorpresa, notiamo che i sorveglianti sembra siano spariti, non se ne vede nemmeno uno. Quando, ad un tratto, dai loro locali, esce il sergente seguito dai suoi uomini, tutti armati in tenuta di guerra; ma, mentre i soldati si dirigono verso l’uscita, costui viene verso di noi. Molto sorpresi, lo osserviamo: con il pastrano troppo lungo per la sua altezza, con l’elmetto calcato sulla testa, fucile a tracolla, zaino sulle spalle ed una borsa in mano, non dava certo l’impressione di essere un guerriero, anche considerando l’età avanzata che aveva. Comprendendo la gravità della anomala situazione, gli chiediamo: ‘Pietro, che succede?’. Seriamente, il sergente ci parla: ‘Abbiamo ricevuto l’ordine di lasciare questo campo per essere impiegati nei combattimenti. Praticamente voi siete liberi, ma vi consiglio di restare qui, di non avventurarvi fuori perché, riconoscendo dalle vostre vesti che siete prigionieri, chiunque vi potrebbe ammazzare sul posto. Nelle cucine c’è ancora qualcosa, razionatelo il più possibile: certamente i rifornimenti di viveri non arriveranno più…’. .Peter è molto triste, quasi commosso. Luigi, a nome di tutti, gli propone: ‘Pietro, ci hai sempre trattato bene, te ne siamo riconoscenti. Resta con noi: quando arriveranno i russi ci libereranno, e noi intercederemo a tuo favore; ed inoltre, se resti qui, tanto il tuo dovere ormai l’hai compiuto, è molto più probabile che tu salvi la vita, E’ dunque insensato combattere ancora una guerra, che l’avete già persa; pensa alla tua famiglia, ai tuoi cari, di potervi riunire di nuovo…’.Ma il soldato si sforza di rimanere impassibile all’accorato appello del suo interlocutore, finché risponde: ‘Dei miei familiari da tempo non ne ho più notizie: quelli in Renania sono in una zona già occupata dalle truppe angloamericane; di mio figlio, in Italia, impegnato al fronte sulla linea Gotica, so solo che è in corso l’offensiva degli Alleati contro quelle nostre posizioni. No, il mio dovere, di soldato, di uomo, m’impone di continuare a servire lealmente la Patria, fino in fondo. Vi saluto tutti e vi auguro che vi vada tutto bene’. E così dicendo ci fa un gesto di saluto, allontanandosi; e noi, in coro: ‘Altrettanto a te!’. Di lì a poco arrivano degli autocarri che caricati i nostri, ormai ex, sorveglianti, ripartono subito. Padroni del campo, i prigionieri entrano nei locali della struttura, onde organizzare il da farsi, ma parlando ancora di Peter. Uno di loro sta dicendo: ‘Il sergente Pietro è stato esemplare per il suo senso civico e di bontà nello svolgere le sue mansioni in un contesto di guerra, quindi di violenza; ma non di esempio perché adesso sta andando a combattere fino all’estremo, fino alla fine, come praticamente si può dire che tutti i soldati tedeschi hanno fatto, ed ora stanno facendo, come lui. E, per contro, mai, nel corso del conflitto sino a questo disastroso finale, è stato costituito un gruppo in armi, per lottare contro il regime di Hitler’. La battaglia di Berlino – continua il narratore -, infuriò per un paio di settimane, sino al 2 maggio ’45, giorno della presa della capitale germanica da parte dell’armata rossa. Al campo di concentramento di Luigi arrivano i russi, che liberano i prigionieri e nel contempo li imprigionano di nuovo portandoli in Russia in un analogo campo. Similmente, si ripete a loro quel che gli era stato fatto dai tedeschi quasi due anni prima: lavoro coatto, disciplina dura, scarsità dei, pessimi, cibi. I nostri sono esasperati ‘Ma se ci hanno trovati imprigionati dai tedeschi, loro avversari, perché ci trattano da nemici?’. Allora alcuni nostri ufficiali chiedono spiegazioni ai loro omologhi sovietici, che a loro rispondono: ‘Eravate alleati con i tedeschi, e con loro avete invaso la nostra Nazione, seminando morte e terrore. Comunque sappiate che voi, ripudiando l’alleanza con la Germania, e che per questo vi hanno punito, siete trattati molto meglio dei vostri commilitoni che abbiamo imprigionato durante le battaglie nel nostro territorio, ora in campi di concentramento più duri di questo e molto lontani da quaggiù’. ‘Ma allora, visto che abbiamo ripudiato concretamente di lottare al fianco dei tedeschi, quand’è che ci permetterete di ritornare alle nostre case, nella nostra Patria?’. ‘Non lo sappiamo, ciò non dipende da noi militari’. Trascorre il tempo, e sempre più il morale di Luigi e di suoi compagni va verso terra: mai nessuna notizia del sospirato rimpatrio. Intanto le diplomazie, i ministeri competenti delle nazioni interessate al caso si danno da fare; ma dato che di quasi tutti gli italiani catturati in Russia non se ne seppe più nulla, furono annoverati fra i dispersi. Mentre quei nostri militari presi in Germania, furono finalmente rimpatriati, sembra anche per fattiva mediazione della Svezia. Quindi anche il nostro Luigi poté finalmente ritornare nel suo paese, in terra di Coreglia, dai suoi cari e riprendere la vita normale, così drammaticamente per tanto tempo interrotta”.

Cesare ha terminato la triste narrazione, e tutti si alzano in piedi riprendendo a camminare, ormai verso le loro case, ché l’ora è avanzata, Mercede commenta:

Racconto umano, storico, una delle tante testimonianze di quel brutto periodo, che è bene ricordare anche per evidenziare come le guerre, tutte, siano sempre una disgrazia per l’umanità”.

Mano a mano che il gruppo dei passeggiatori procede, ne escono quelli che via via si trovano vicino alle loro abitazioni, tra allegri, sonori saluti.

“Ciao, arrivederci, alla prossima, buona serata…”.

(scritto nel febbraio 2020)

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