Un crocifisso dondolante

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(racconto basato su un fatto realmente accaduto) 

“Guardate: stiamo per costeggiare quel paese – e l’uomo che parla, Enrico, un esile anziano munito di baffi e barbetta, lo indica ai suoi compagni -, e propongo di fermarci alla ‘bottega’ del villaggio per rifocillarci un po’, che sono, che siamo tutti sfiniti, dopo questa escursione montana, a cui, da circa un anno, non eravamo più abituati a compiere”; e, mentre parla, lievemente affanna.

“Buonissima, utile idea – gli risponde uno per tutti -, così anche potremo riposarci per una mezz’oretta ché, come tu hai detto, non siamo più allenati a questo tipo di faticare, causa il covid-19, che ci ha obbligato a star quasi fermi per tanto tempo…E speriamo che finisca presto, questo tremendo virus!”.

“Speriamolo pure; ma per adesso non se ne vede la fine”, gli fanno eco gli altri, sconsolati.

Il gruppo dei marciatori, partiti di buon mattino dal Fondo Valle, quel giorno avevano ricominciato a compiere una escursione montana abbastanza impegnativa, riuscendo a raggiungere la sommità di un monte nel tempo programmato; ed ora, nel pomeriggio, erano a circa mezza strada sulla via del ritorno. Si fermarono al bar del paese, indossando le mascherine e stando a ragionevole distanza uno dall’altro, secondo le disposizioni di legge.

“Merenda: pane, affettati, formaggio…e bevande, anche vino”, ordinano mentre prendono posto presso i tavoli.

Ed ecco che mentre i nostri consumano il breve pasto, un uomo attempato, robusto, entra nel locale soffermandosi al banco; e subito viene riconosciuto da uno dei camminatori: l’anziano Camillo, che festosamente gli si rivolge:

“Filippo, sei proprio tu? Abiti qui?”.

“Proprio io! Sì abito in questo paese. E tu sei Camillo: che piacere rivederti!”.

I due si abbracciano fraternamente, poi Camillo fa le presentazioni:

“Questi sono miei amici, compagni di camminate; e questi è Filippo, un valente muratore, che lo conobbi tanti anni fa, quando ero di servizio alla cabina elettrica principale dello stabilimento, mentre egli si trovava in detta cabina per eseguire lavori edili. Diventammo amici, e ricordo che egli mi parlava di quando fino a poco tempo prima lavorava in Libia, dove aveva prestato la sua opera per circa vent’anni, narrandomi interessanti fatti accadutigli in quella terra, come quello del crocifisso”, e così dicendo Camillo scambia uno sguardo d’intesa con l’amico.

“Vogliamo conoscerla pure noi, questa storia”, una voce si eleva dal gruppo.

Filippo, uomo forte, atletico, molto aperto, socievole, viene fatto sedere con gli altri, partecipando alla ‘merendella’ e, con evidente piacere, inizia a narrare:

“Nei primi anni del ‘sessanta’, ero poco più che ventenne, mi trovavo in Libia, nell’est del paese, non lontano dall’Egitto, con altri colleghi muratori, presso la famosa oasi di Giarabub, grande località di transito di carovane anche classiche con cammelli, per lavori di ristrutturazione e ampliamento di una caserma, dato che il nuovo capo della nazione, il dittatore Gheddafi, voleva fare grandi opere pubbliche, di ogni genere. Il lavoro non era faticoso, perché si usufruiva dell’apporto di manovalanza di operai del luogo, e si guadagnava bene; ma le giornate erano lunghe e monotone perciò talvolta, anche di sera, ci recavamo in qualche villaggio della zona, onde distrarci.

Un venerdì, giorno di festa settimanale per i musulmani, equivalente alla nostra domenica, noi italiani ci rechiamo al grande villaggio principale, ed al mercato, all’aperto, si osserva la merce esposta. Ad un certo punto mi chino per prendere un articolo ma, senza che me renda conto, mi esce fuori dalla maglietta la catenina con il crocifisso, che avevo al collo, oscillando vistosamente. Subito comincia un mormorio dalla folla, soprattutto donne, che aumenta rapidamente fino a grida altissime. Eravamo semi accerchiati contro un muro e quegli scalmanati ci minacciavano con i pugni rivolti verso di noi; ma non si poteva scappare. Istintivamente rimetto il crocifisso entro la maglia mormorando: ‘Gesù, aiutaci!’, ché il momento era veramente brutto; ma finalmente udiamo gli squilli dei fischietti delle guardie che erano di servizio al mercato: erano due e, faticosamente, usando spintoni e sfollagente, riuscirono a giungere davanti a noi; quindi, strattonandoci, ci obbligarono a correre con loro, facendo un varco fra la gente infuriata, verso il nostro ‘gippone’ sul quale, appena saltatici sopra, si partì a tutta velocità, mentre la gente ancora inferocita faceva ressa intorno a quei militari. Li salutammo da lontano, con le braccia alzate, come ringraziamento per averci liberati da una bruttissima situazione. Giunti alla nostra residenza, raccontammo il fatto ai compagni ed ai militari, ed un ufficiale libico, che conosceva bene la nostra lingua, ci disse che quei villici avevano reagito così violentemente perché, ostentando il nostro maggior simbolo religioso verso di loro, si erano sentiti offesi e provocati”; e così concludendo Filippo mostra ai suoi nuovi amici il detto crocifisso che è, diciamo, voluminoso.

“In Libia hai lavorato sempre in questa caserma?”, gli chiede Enrico.

“No: all’inizio, con cantieri mobili, si eseguivano lavori di riparazione e consolidamento della grande strada Balbia, nome in onore di Italo Balbo, governatore della Libia, ‘colonia italiana’, danneggiata dai combattimenti che lì avvennero durante la seconda guerra mondiale. Balbo, durante il suo governatorato, fra tante altre opere, aveva fatto costruire circa 4000 chilometri di strade; ma la più nota è questa, litoranea libica, che va dalla Tunisia all’Egitto, e che fu inaugurata dal Duce nel 1937”.

“Lei ha citato la Libia come ‘colonia italiana’ –; gli rivolge la parola Ines, una delle due donne presenti nel gruppo, bassa e paffutella, simpatica -: ma come avvenne questo, e quando?”.

“Nel 1912 – le risponde Filippo – ci fu guerra fra Italia e Turchia, che fu vinta dalle nostre truppe; e fu per questa vittoria che prendemmo alla Turchia la Libia e le isole del Dodecaneso – e continuò -: Dopodiché fui trasferito a lavorare alla caserma presso Giarabub, come già sapete; finché, finalmente, essendo esperto pavimentista, fui inviato a Tripoli per lavori murari nei palazzi pubblici, governativi, E nella capitale trascorsi i migliori anni della mia permanenza in Libia, contraendo tante amicizie come quella, una delle tante, con un addetto al consolato francese, il signor Antoine, vivendo bene, insomma. In questi anni, fra un viaggio Italia -Libia , e viceversa, mi sposai ed una volta, quando aspettava il primo figlio, mia moglie venne con me a Tripoli, per qualche mese. ”.

“Bene – riprende Ines – :e la ‘tolleranza’ religiosa verso voi cristiani come era nella capitale? Penso meglio che nell’oasi…”.

“Certamente – conferma Filippo -, tutt’altra cosa. A Tripoli, ed altrove, i cristiani potevano esplicare apertamente e liberamente la loro fede, partecipando nelle chiese alle sacre funzioni, fino a svolgere persino qualche limitata processione all’esterno, con rispetto delle autorità libiche. Perché Gheddafi, capo della Libia, stimava i cristiani dato che le suore cattoliche avevano amorevolmente curato suo padre quand’era ricoverato in ospedale, e ne era riconoscente; e giunse a chiedere a Giovanni Paolo Secondo che inviasse suore negli ospedali libici! Infine – prosegue -, già anziano e con qualche acciacco, tornai definitivamente in Italia lavorando nella nostra zona, fino ai lavori alla cabina elettrica della metallurgica, a Fornaci, dove conobbi Camillo. Indi, finalmente, la pensione, dall’inizio della quale sono già trascorsi circa vent’anni. Ed ora voglio dirvi – conclude con forza -, che vi verrò a trovare a Fornaci; ma prima telefonerò a Camillo, che ve lo dirà!”.

Poi, al momento del commiato, Filippo decide di fare un po’ di strada con i nuovi amici:

“Vi accompagno fino al paese di sotto, dove abita mia figlia con la sua famiglia”.

“Benissimo, grazie!”, gli rispondono gli altri con entusiasmo.

Quindi  il gruppo di persone inizia di buon passo a marciare intonando allegramente, guidati da uno di loro, Enzo, buon tenore, il canto patriottico ‘Inno a Roma’, di Giacomo Puccini:

“Sole che sorgi, libero e giocondooo…”.

 

Commenti

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  1. Gian Gabriele Benedetti


    Tre sono gli aspetti precipui del racconto di Mario: l’amicizia, la storia, la tolleranza-intolleranza religioso-culturale.
    Nel primo aspetto assume un valore particolare l’amicizia, che si manifesta non solo in una scampagnata, ma in uno stretto legame personale e valoriale, tanto da non morire assolutamente con il passare del tempo, che spesso tutto distrugge.
    Nel secondo aspetto, interessante e significativa è la riproposizione precisa e attenta, di eventi storici, che hanno caratterizzato un periodo, in cui gli Italiani, nel bene e nel male (e qui nel bene) sono risultati protagonisti.
    Il terzo aspetto, che pare, al momento, assolutamente attuale, riguarda proprio il problema religioso-culturale. In effetti, in questi ultimi tempi, è salito e sale all’evidenza, anche talvolta tragicamente, il contrasto tra differenti posizioni di fede e di visione di vita, che dovrebbero trovare una comunione di intenti e di comportamenti soprattutto nel nome di un Dio che è e deve essere considerato amore, sapienza, pace, fratellanza, giustizia…
    Tutti questi aspetti rendono molto ben fruibile e stimolante l’intero lavoro di Mario, il quale riesce ad offrirci non indifferenti motivi di analisi storica-religiosa-sociale-umana.
    Gian Gabriele Benedetti

  2. Mario Camaiani


    Carissimo amico Gian Gabriele,
    ti ringrazio per tuo bellissimo, profondo commento a questo mio lavoro. Hai analizzato sotto vari aspetti il racconto in modo dotto, mettendo in risalto ciò che di buono, di positivo vi hai riscontrato, e sempre lusinghiero nei miei riguardi.
    Grazie ancora e, con amicizia, un forte abbraccio.
    Mario

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