Alfredo Agostini e i suoi colleghi, maestri dello sbalzo su metalli

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A Barga l’arte del ferro battuto e dello sbalzo e incisione su metalli ha avuto una lunga stagione con diversi maestri artigiani che vi si sono dedicati con una passione straordinaria che, di là dalla professione, lo svolgersi dell’ordinario lavoro, ha sconfinato nel mondo dell’espressione artistica, cioè creatori di oggetti con un valore estetico.
Numerose sono le opere che ci hanno lasciato e che ancora oggi fanno bella mostra di sé in tanti angoli di Barga, pubblici e privati edifici, sia all’esterno come nei loro interni: piatti, anfore, vasi, effigi di personaggi, brocche, cancellate e così dicendo.
Un’idea del loro lavoro artistico lo possiamo vedere in mostra presso la Biblioteca Comunale di Barga a Villa Gherardi, dove sono esposte quelle opere che uno di loro, Vincenzo Gonnella, volle donare al Comune di Barga agli inizi degli anni ’80, cioè al momento in cui decise di cessare di battere con meticolosa cura il martello sul rame, argento, e altri metalli, da cui traeva preziosi lavori, molti dei quali sensibilmente ispirati e tratti dalla millenaria iconografia che la storia di Barga gli offriva nelle affascinanti sculture del suo Duomo e per questo molto apprezzati, e non solo dai barghigiani.
Abbiamo fatto un nome, ma ce ne sono anche altri e allora con Vincenzo Gonnella ricordiamo il compagno di lavoro Aldo Marroni, che nonostante fossero coetanei, potrebbe essere definito il suo compagno-maestro. I due lavorarono a stretto contatto con grande profitto artistico, esemplarmente visibile nei quattro lampadari e quattro lampade che ornano la chiesa del Sacro Cuore a Barga. Si tratta di lavori di ferro battuto, con fini ornamenti che ben ci danno la misura della loro maestria.
Seguitiamo il nostro percorso con la famiglia dei Biagiotti di Barga, cioè Giuseppe, poi i figli Alfredo e Antonio. Giuseppe fu un’abile maestro detto “Picchietto”, il cui lavoro si esemplifica nella ringhiera all’interno della sede del Partito Democratico di proprietà di Maria Vittoria Stefani, e nel cancello dello stesso stabile che prospetta in via di mezzo, come nella cancellata che divide la sala del Consiglio Comunale di Barga dal pubblico; opere di fine e bella fattura. La cancellata di palazzo Pancrazi fu richiesta da parte del Comune alla ditta Biagiotti nel 1923, ed è bella al punto tale da rendere oltremodo decorosa la stessa sala di palazzo Pancrazi, prima attrezzata alla meglio.
Circa l’efficienza della sala consiliare, la storia ricorda che a seguito del terremoto del 6-7 settembre 1920 palazzo Pancrazi fu soggetto a restauri e in quel 1923 si stava pensando al migliore dei modi per riallestire gli interni. Ritessendo un poco quel tempo, capiremo quale sia stato l’iter seguito per il raggiungimento degli odierni traguardi nel campo del bello e dell’elegante praticità dello stesso palazzo comunale.
Si narra, infatti, forse a seguito del terremoto, che i consiglieri avessero a disposizione “banchi improvvisati con vecchi oggetti” e che la divisione con il pubblico fosse “fatta con vecchie panche di scuola”. Questa storia si evince dalle delibere comunali, dove apprendiamo ancora che per ovviare a un simile stato delle cose deliberarono gli opportuni stanziamenti per impegnare degli artigiani nell’allestimento della sala. Tra questi, oltre all’ebanista Biagi Augusto per i mobili, furono impegnati degli artisti del ferro battuto per il lampadario della sala e altri del comune, che dai pagamenti sapremo, essere Aldo Marroni e Vincenzo Gonnella, e infine Giuseppe Biagiotti per la cancellata e il tutto per £ 15.000.
Questi personaggi non erano dei bravi ma sprovveduti artigiani, perché alla preventiva richiesta di un loro coinvolgimento nei lavori consegnarono i progetti delle loro idee per la successiva approvazione, che ovviamente non mancò di essere deliberata.
In questo periodo stava affermandosi, quale odierno prototipo dei moderni idraulici specializzati in impianti di riscaldamento, il giovane Alfredo Agostini, morto nel 1937 all’età di quarant’anni, che fornirà la casa Cardosi al Sasso di un impianto di riscaldamento a termosifoni, si dice il primo installato a Barga. Questi, nel solco della tradizione barghigiana, coltivava anche lo sbalzo su metalli e i lavori di ferro battuto, con risultati straordinari. Era un vero e proprio artista che realizzava vasi di varie dimensioni ornati in stile Liberty, e similmente dei soprammobili da ornamento, dove non mancava di porre la sua firma unita alla dicitura “Made in Italy”, un particolare che ci fa capire che i suoi oggetti solcavano anche l’oceano oppure la Manica, per andare ad abbellire le case degli emigranti barghigiani più facoltosi.
L’Agostini, nonostante avesse una propria ditta, entrò a lavorare anche alla S.M.I. degli Orlando a Fornaci di Barga, dove fu tenuto nella massima considerazione proprio in virtù della sua valenza artigiana, tanto da essergli richiesto di assumersi la responsabilità di un reparto di produzione, che però non condivise.
A quei tempi per entrare in Fabbrica occorreva il capolavoro, un lavoro che dimostrasse l’abilità, ed ecco allora farsi avanti l’idea che l’Agostini portasse in visione agli Orlando un suo lavoro del tutto unico e straordinario. Si tratta di un tubo con sei uscite senza l’ausilio di saldature, tratto da uno spesso disco di rame e tutto lavorato a mano. Gli Orlando rimasero interdetti, poi meravigliati di fronte a un simile lavoro attuato con sapiente abilità dall’artigiano, dicendogli: con questo lavoro sottobraccio ti puoi presentare dove vuoi che le porte ti saranno aperte.
Il capolavoro fu ritenuto in fabbrica a Fornaci, in bella mostra nella direzione e poi ne furono fatte delle copie in piccolo quale omaggio ai clienti a dimostrare l’abilità delle maestranze della Ditta. Alla morte dell’Agostini che avvenne nel 1937, la moglie Raffaella Arrighi, chiese e ottenne il permesso dagli Orlando di poter riportare a casa sua il lavoro del marito.
Come nota aggiuntiva, diremo biografica, i familiari lo ricordano fervente socialista seguace di Cesare Biondi, poi contrario al fascismo, tanto da aver previsto, lui morto nel 1937, che per l’Italia sarebbe finita male. Vediamo ora il suo necrologio che apparve su La Corsonna del 22 agosto 1937, n° 15, dove è chiara l’idea della sua maestria:
“A soli quaranta anni s’è spento Alfredo Agostini, vittima di un morbo crudele, contro il quale ha lottato tenacemente per l’amore della sua famiglia.
Era uno dei migliori artigiani di Barga, valente sbalzatore in rame, forgiatore in ferro, e meccanico idraulico di grande genialità; era insomma per la sua multiforme bravura un degno continuatore delle più fulgide tradizioni artistiche degli antichi maestri della nostra Terra. Il vuoto che egli lascia nella nostra comunità non sarà tanto presto colmato.
Sia pace a lui nell’eternità, e la divina Provvidenza aiuti la sua famiglia.”
La bottega artigiana di Alfredo Agostini era a metà della salita di piazza che sale al Comune di Barga, ma di quest’aspetto ce ne parlerà a seguire Graziella Cosimini, nell’articolo tratto dà Il Giornale di Barga del marzo 1994 “Chiusa la bottega Rizzardi –Un pezzo di Barga se ne va”. Diremo solo che in quella bottega, dopo la morte dell’Agostini rimasta in testa alla moglie Raffaella, fu assunto un giovane di Barga, Alfredo Piol e poi suo fratello Bruno Rizzardi, con il tempo divenendone i titolari e così tenendola aperta sino al 1994.
Eccoci ad altri due nomi del nostro percorso alla riscoperta dei valenti artigiani di un tempo, appunto, Alfredo Piol e Bruno Rizzardi, quest’ultimo morto nel presente anno, che anche loro ci hanno lasciato moltissime opere a sbalzo su rame e ottone sparse in tante case di Barga. Molto apprezzata anche l’opera d’incisore su metalli dell’altro fratello Aldo Rizzardi, ancora vivente, soprattutto stimato dagli Orlando, nella cui fabbrica di Fornaci lavorò sino alla pensione, raggiunta ormai da moltissimi anni.
A questo punto va fatto un inciso, per dire che quegli artigiani-artisti che hanno esercitato a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, presero a lavorare con straordinaria inventiva quei residuati bellici consistenti in bossoli esplosi di cannone e di minori calibri, di cui il territorio di Barga era oltremodo fornito alla fine della guerra, che per Barga coincise con lo sfondamento Alleato della Linea Gotica, quel fronte tra gli opposti eserciti stabilizzatosi tra il Tirreno e l’Adriatico –ottobre 1944, aprile 1945- e che attraversò anche il nostro territorio sul crinale di Lama-Monte S. Quirico sino al Serchio, ecc.
Quei bossoli di ottone, che gratuitamente gli si offrivano, dettero ai nostri artigiani un particolare stimolo creativo, quasi una nuova vita artistica, prendendo a trasformarli da produttori di morte in squisite opere d’arte, essenzialmente in brocche e vasi porta fiori stilizzati e ornati con incisioni di varia natura, soprattutto floreali, alcuni aventi per soggetto il lavoro agreste e montanaro della nostra gente. In questo particolare campo si cimentarono Marroni e Gonnella, ma anche altri, come Piol e Rizzardi.
Abbiamo fatto alcuni nomi, forse i più rappresentativi che questo piccolo ma espressivo mondo dell’artigianato artistico di Barga ha prodotto, la cui memoria ci resta in tante opere da conservarsi con cura. Certamente ce ne sono stati altri, come Luigi Da Prato, autore di apprezzati lavori di ferro battuto e a sbalzo, ma anche il vivente Antonio Nardini, dalla cui bottega, in cui lavorò Giuseppe Nardi e altri, uscì il lampadario del Teatro Differenti.
A seguire, eccoci a Graziella Cosimini, con il ricordo della bottega di Alfredo Agostini, poi Piol e Rizzardi, nel momento in cui fu decisa la sua chiusura.

Pier Giuliano Cecchi

Il ricordo di Graziella Cosimini, da Il Giornale di Barga – Marzo 1994

Chiusa la Bottega Rizzardi – Un pezzo di Barga se ne va

Pioviggina dal cielo bigio di febbraio e la salita di via di Borgo si fa sentire di più senza lo slancio che dà il freddo asciutto. A metà un’Ape ingombra il passaggio. Intorno ad essa degli uomini sono intenti a caricare pesanti arnesi che hanno il colore del tempo.

“Un pezzo di Barga se ne va” dice Gianluca, il vigile e, allora riscossa dai miei pensieri, mi fermo e capisco. Per l’antica bottega-laboratorio che apriva i battenti a metà della scesa di piazza, è venuto il momento: sotto gli occhi dei fratelli Rizzardi, gli ultimi artigiani che vi hanno lavorato, si sgombra, si chiude definitivamente con un passato che in quelle stanze perdurava.

Già, da qualche tempo, gli antoni neri della porta erano fissi a custodire ambienti e oggetti nell’oscurità polverosa.

Entro. Nei due stanzoni, sotto la luce che piove opaca dalle lampadine penzolanti dalle travi del soffitto, è quasi palpabile l’atmosfera di un’epoca tramontata per sempre. I muri, su cui la patina del tempo si è raggrumata, sembrano rimandare l’eco dei colpi di martello sul rame e sul ferro dell’Alfredo, Alfredo Agostini, e del suo ragazzo di bottega, anche lui Alfredo, Alfredo Piol, che del Maestro scomparso prematuramente a quarant’anni, ereditò l’operosità e l’arte.

Lattonieri, ramai, stagnini, trombai, possono essere chiamati coloro che hanno lavorato in queste stanze, ma, in verità, sono stati qualcosa di più perché qui il metallo veniva modellato, reso espressivo e assurgeva alla dignità dell’arte.

“Guardi -mi disse Bruno Rizzardi, ponendo sul bancone un tubo, un tubo crociato- questo è uno dei capolavori dell’Agostini”. Mi spiegò che si tratta di una prova di lavoro presentato alla Fiera di Milano per la Vecchia Metallurgica degli Orlando.

“Vede, da un disco di rame è stato tirato su, a martello, un tubo con sei derivazioni e, stia attenta, senza saldature”.

In grande considerazione, mi dicono, era tenuto dagli Orlando l’Agostini a cui il direttore amava ripetere che con quel tubo sotto il braccio poteva presentarsi dovunque, perché tutte le porte gli sarebbero state aperte.

In effetti, l’intelligenza e l’abilità di valente artigiano gli permisero di progettare e realizzare lavori d’idraulica, avanzati, per quegli anni, gli anni trenta.

Ma dal fondo di un cassetto saltano fuori vecchie fotografie annerite di lavori di altro genere; vasi di rame dalle forme panciute arricchite da motivi floreali, piatti ornamentali, coppe a sbalzo. Oggetti che hanno un posto d’onore, oggi, nelle case di chi le possiede: l’elegante sobrietà delle loro linee, i riflessi pacati del rame, di cui son fatti, rendono più barghigiana una casa di Barga.

Mentre prosegue il via vai dello sgombero, l’occhio vaga sugli scaffali. Altri oggetti sembrano lì da sempre.

“Ecco una napoletana, questo invece è un bricco per l’olio. Sa a cosa serviva? Per attingere l’olio dal coppo. Nell’inverno, al gran freddo, l’olio ghiacciava e si tirava su con questo bricco. Poi si metteva vicino al braciere”.

Ci sono anche gli stampi di latta per dolci, per il latte alla portoghese principalmente; hanno le scanalature profonde e l’anellino per appenderli alla piattaia. Chissà, con un po’ di pazienza nella ricerca, salterebbero fuori anche le formine per la Befana: il cuore, il panierino, la stella, l’albero… Utensili di un tempo che rimandano all’immagine della cucina con il focolare quando, in essa, centro della casa, ferveva in ogni ora del giorno la vita operosa delle donne. E i vegliatori che venivano ad aiutare a ‘far la Befana’? Un ricordo lontano legato a quegli stampini di latta.

Quella lampada lassù? Chiedo indicando una lampada a quattro facce dalla copertura di ferro arricciata ai lati in due volute: “Eh, quella è una lampada funebre”. La portava a mano l’uomo addetto a chiudere il funerale, quando i funerali si snodavano lentamente per la via di Sigliari e si sentiva lo scalpiccio dei passi nel silenzio mesto. L’ultimo omaggio di luce, penso, per chi se ne andava.

Mi rendo conto che in queste stanze si è lavorato per tutti i momenti della vita dell’uomo con la stessa perizia e lo stesso gusto del bello. Come è stato possibile, mi chiedo, non essere riusciti a trasmettere alla nuova generazione un mestiere come questo che avrebbe potuto diventare un’arte da identificare con la nostra cittadina?

Il discorso si fa complesso ma aldilà di tutte le considerazioni, forse il nocciolo della risposta sta nella scritta un po’ sbiadita, che, chi lavorò qui, volle, a mo’ di motto, su una parete. Recita così: “ Senza una forte volontà non si riesce a nulla di buono”. Porta la firma di M. D’Azeglio.

Graziella Cosimini

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