Andy Warhol: l’immagine e il mito. La Factory in mostra a Pisa

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Andy Warhol, Andy Warhol, Andy Warhol…e ancora altre dieci, cento, mille volte Andy Warhol. Creare una sequenza infinita di immagini e modificarle con colori vivacissimi, estrapolare dalla società i suoi miti diventando mito stesso; sconvolgere la cultura e il mercato dell’arte proponendo cose mai viste; scaraventare fuori dal panorama artistico le vecchie tecniche esecutive; ripetere ossessivamente il suo nome è come citare la sua arte, nella quale si conferma come grande scrutatore della società che lo circonda: questo è Andy Warhol.

Siamo in quell’America vittoriosa ed economicamente rampante dove il paesaggio urbano è costellato di cartelloni pubblicitari e oggetti dal tondeggiante sapore del design di quegli anni, ma soprattutto siamo in un’area dove la cultura e la pittura devono sempre rivaleggiare e superare quella europea. Inghilterra, anni ’60: nasce la popular art e negli Stati Uniti trova quel terreno fertile dove espandersi diventando familiarmente nota come Pop Art.

“Pop” non è un’arte attenta al dato veristico della società, non vuole avere come primo destinatario il popolo, ma è attenzione alla collettività stessa fatta di miti, controsensi, benessere, produzione seriale di oggetti dove l’unico reale scopo è la vendita grazie all’uso intensivo dei mass media.

“Pop” è anche il rumore fatto dagli Stati Uniti, vincitori del conflitto mondiale e primi incontrastati in fatto di scalata economica e riscatto culturale attraverso la nuova arte nei confronti della vetusta e cara Europa.

“Pop” è diventato esplorare il paesaggio cittadino sfavillante di grandi neon o cartelloni pubblicitari accattivantissimi che propongono nuovi modelli o la nuova life da seguire o imitare attraverso la somministrazione alle masse dei modelli “giusti”.

“Pop” è l’american dream. “Spendere è molto più americano di pensare”, diceva Andy Warhol.

Smontare e analizzare attraverso le tinte fluo e la grafica essenziale necessarie alla vendita è analizzare una nazione ormai diventata grande potenza mondiale. Parlare di questa arte ammette anche fare qualche accenno all’importanza della rivoluzione industriale: abbandono dell’artigianalità e unicità dei prodotti a favore di una produzione seriale da promuovere attraverso una fluorescente pubblicità senza dimenticare a questo punto i bellissimi affiche illustreé che decoravano la Parigi di fine ottocento o la cartellonistica delle dittature europee e molti altri esempi ancora.

Arte e potere e il potere dell’arte: è con questo gioco di parole che possiamo esplicare la grandezza delle immagini e il loro uso inebriante. Calvino diceva a proposito delle immagini: «Viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini che viene moltiplicata con una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini prive di ricchezza di significato. Una nuvola d’immagini che si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria».

La biografia di Andy Warhol, nato come il pubblicitario Andrew Warhol Jr., è di fondamentale importanza per capire la complessità del suo pensiero e fare arte del genere significa voler fare i trasgressivi: dal punto di vista esecutivo, attraverso la tecnica industriale della serigrafia, fredda e impersonale, significa abbandonare le tecniche artistiche canoniche con le cui rappresentare i nuovi modelli della modernità facendo diventare l’immagine di Marilyn Monroe come la sensualissima Gioconda del XX secolo. A questo punto sorge spontanea la domanda: Chi sono i nuovi miti? A tal proposito, uno degli ultimi libri di Zygmund Bauman s’intitola “Consumo, dunque sono” e la tesi di fondo si basa sul concetto che noi viviamo nella “società dei consumatori” dove si è sempre volti alla “ricerca della felicità” e alla ricerca di uno status in una società che vive per il consumo e trasforma tutto in merce scevra di impulso alla ribellione.

Sul superfluo, Warhol, si esprimeva così: “Un artista è uno che produce cose di cui la gente non ha bisogno ma che lui, per qualche ragione, pensa sia buona idea darle”.

Collocati contesto sociale, tecniche e aspetti critici a questo punto bisogna capire che Andy Warhol ha sfruttato il capitalismo e facendolo ha creato il mito di sé di sé stesso, come una vera azione commerciale all’interno della scena artistica e della Factory: il suo laboratorio va messo in parallelo con quanto facevano le industrie (produzione diurna e notturna di opere d’arte di qualsiasi natura) e vederlo come un luogo di incontro e scontro di idee tra gli artisti della New York di quegli anni, dove non era difficile vedere l’uso di droghe, scene orgiastiche e molte altre pratiche legate al radicalismo sessuale e alla stravaganza in generale.

Le riproduzioni dei nuovi miti viaggiano oggi su t-shirt anche se quei Beatles, Che Guevara, Mao, Marilyn che viaggiano affissi al corpo altrui sono soliti chiedersi quanto di loro il possessore sa.

Scendo nel dettaglio della mostra realizzata a Pisa nelle sale di Palazzo Blu e visitabile dall’ 11 Ottobre 2013 al 1° Febbraio 2014 grazie alla presenza di oltre centocinquanta opere provenienti dal museo di Pittsburgh e da altre collezioni americane e europee.

I curatori, Walter Guadagnini e Clauda Beltramo Ceppi, porteranno il visitatore in un viaggio durante il quale faranno capire l’arte puntando la lente sui temi che hanno fatto sì che Warhol diventasse uno dei più grandi artisti della Pop Art attraverso opere come “Brillo Box”, le lattine della zuppa Campbell, i ritratti di Marilyn, Liz Taylor, Mao, Richard Nixon, i coltelli e i fiori. Non mancheranno di certo iniziative collaterali realizzate tra Fondazione Palazzo Blu e l’intera area cittadina densa di tesori e capolavori d’arte, senza dimenticare le istituzioni universitarie.

Per info: www.palazzoblu.it -Lungarno Gambacorti 9, 56125 Pisa | Tel. +39 050 220 46 50 | info@palazzoblu.it

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