Il pericolo amianto. A Torino il processo del secolo

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Alcuni giornali l’hanno definito il ‘processo del secolo’. Associazioni di industriali, sindacati, lavoratori di tutta Europa guardano con attenzione a Torino, dove dal dicembre 2009 si confrontano in tribunale esponenti dell’azienda Eternit di Casale Monferrato e oltre 6mila parti civili, fra vittime dell’amianto, familiari, enti pubblici (compresi la Regione Piemonte e l’INAIL). Lo scopo è appurare se i vertici dell’azienda sapessero della cancerogenicità dell’amianto e dunque siano responsabili per questa tragedia del lavoro. Quest’anno si arriverà a sentenza, dopo 50 udienze, per disastro ambientale doloso e omissione volontaria di cautele nei luoghi di lavoro. Cerchiamo di capire cosa rappresenta il pericolo amianto oggi in Italia, con l’aiuto del professor Vito Foà, titolare della cattedra di Clinica del Lavoro Luigi Devoto dell’Università di Milano. L’amianto, o asbesto, è un minerale a lungo considerato il miracolo dell’industria e della manifattura nel XX secolo: per le sue straordinarie proprietà (versatile, economico, indistruttibile, termoisolante, fonoassorbente) veniva usato pressoché ovunque per coibentare e isolare. Come è ormai certo, le fibre di amianto sono cancerogene e possono portare a asbestosi e a vari tipi di tumori, il più tipico dei quali è il mesotelioma, che colpisce le membrane dei polmoni, si manifesta dai 15 ai 40 anni dopo l’esposizione ed è rapidamente fatale. In Italia l’amianto è stato bandito dal commercio e dall’industria nel 1992. Il suo nome, però, deriva da un termine greco che significa incorruttibile, inestinguibile.

Quanto amianto ancora ci circonda e in quale misura rappresenta un pericolo?
“L’amianto, nei maggiori paesi europei, non si usa più – spiega Vito Foà – per oltre un secolo è servito nell’industria e nell’edilizia, per oltre 3mila manufatti. Piccoli elettrodomestici e tessili per i lavoratori, per pannelli di cemento-amianto (Eternit), cartoni o prodotti a spruzzo per la coibentazione di tetti, fabbriche, navi e treni, per rivestire tubi, caldaie, turbine. Negli anni ’50 la Philip Morris lo metteva nei filtri di sigarette”.
Quanto amianto c’è in Italia?
“E difficile quantificare, poiché non tutte le Regioni hanno effettuato un censimento, alcune solo su edifici pubblici e non su quelli privati. L’Inail (Istituto Nazionale per l’Assicurazione sugli infortuni da lavoro) stima 40-60 siti di produzione dismessi; 5mila-10mila fra materiale rotabile ferroviario, metropolitane, navi con amianto spruzzato; fra 100mila e un milione di metri quadri di edifici con amianto spruzzato; fra 50mila e 80mila km di condotte e serbatoi idrici in cemento-amianto, fra 500mila e un milione di centrali termiche di edifici ed impianti. Il 70 % dell’amianto veniva usato per l’edilizia”. “Basti pensare che a Balangero (la più grande cava di amianto in Europa, in provincia di Torino), si estraevano 100mila tonnellate l’anno, di cui 70mila andavano nell’edilizia – aggiunge Foà- Oggi si può dire che l’asbesto sia rimasto quasi solo nell’edilizia privata e pubblica, dalle caldaie ai tetti negli orti della Lombardia”.
In quale misura questa miniera silente può diventare un pericolo?
“Quando esiste la necessità di manutenzione. Se devo rifare una tubatura o vedere una turbina, devo togliere la copertura d’amianto e dunque qualcuno deve essere esposto. Il problema è quando si rimuove o quando si deteriora spontaneamente, poiché si possono liberare le fibre, potenzialmente inalabili (sono oltre mille volte più piccole di un capello). Fino a che non lo si disturba, non è un effettivo pericolo per la salute. Il problema attuale è la sicurezza di lavoratori del settore, dato che oggi quelli esposti sono soprattutto i bonificatori. Ci sono regole molto strette, le imprese sono iscritte a un albo speciale, occorrono denunce all’ASL, una rigida organizzazione del cantiere, con camere sterili, spogliatoi, regole d’abbigliamento e, naturalmente, controlli sanitari frequenti”.
Ne è passato di tempo da quando all’Eternit la prevenzione consisteva in mezzo litro di latte al giorno dato agli operai!
“Sembra impossibile, oggi, anche se sono passate poche decine di anni. Era il frutto di accordi fra datori di lavoro e operai, oltre che una sciocchezza dal punto di vista tossicologico – commenta Vito Foà – il processo di Torino sta mettendo in luce responsabilità e ritardi nella tutela dei lavoratori”. “E’ un tema complesso, da contestualizzare, quelli erano anni in cui i vigili del fuoco obbligavano le fabbriche a coibentare con l’amianto – osserva Foà – nel 1969 i medici delle ferrovie britanniche chiesero di abolire l’amianto come coibentante per il materiale ferroviario. Nel 1971 c’era una conoscenza dell’amianto alla portata di tutti i medici del lavoro. Nel 1980 il quarto congresso di ingegneri a Torino fu l’occasione per portare a conoscenza della categoria la portata nociva dell’amianto. Nel 1986, anno in cui chiuse l’Eternit, fu bandito l’uso della crocidolite, l’amianto blu. Quindi, dal 1970 al 1990 tutti sapevano, ma fino agli anni ’90 si era autorizzati a usare amianto. È stata una grande tragedia, ma nel complesso, a nessun altro inquinante è stata dedicata tanta normativa e nessuna altra sostanza nociva è stata abolita del tutto, e nell’arco di un ventennio. Proprio intorno alla particolarità del mesotelioma, il tumore dell’amianto, che insorge indipendentemente dalla dose di esposizione (e dunque non è possibile stabilire una soglia di esposizione minima), la medicina occupazionale ha battuto il tasto della protezione individuale e ambientale dall’amianto”. Secondo l’Ilo (International Labour Office) delle Nazioni Unite, la produzione globale di amianto dal 1970 ad oggi si è più che dimezzata. Ma ogni anno si producono ancora 2 milioni di tonnellate di asbesto, e il consumo è in aumento nei Paesi in via di sviluppo. Nel mondo le vittime dell’amianto sarebbero almeno 100mila, circa 5mila ogni anno in Europa, cifre che nei prossimi anni, finché non si raggiungerà il picco delle esposizioni passate, sono destinate a crescere.

Articolo di Donatella Barus pubblicato sul sito della Fondazione Veronesi (source)

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