La musica nelle ossa

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Molti anni fa l’Istituto Rousseau di Lucca era famoso perché, dietro il pagamento di una sostanziosa retta, dava la possibilità di recuperare gli anni scolastici perduti. A parte pochi sfortunati, nelle sue aule in un palazzo del Fillungo cadevano tre specie di ragazzi: i fancazzisti a oltranza, gli immaturi che non capivano che lo studio serviva a costruirsi un futuro migliore e quelli che definirei “oggettivamente duri”.
Io, per non far torto a nessuno, mi collocavo trasversalmente in ognuna di queste categorie.
Alla fine dell’anno scolastico venivamo portati a dare l’esame come privatisti in una scuola pubblica di Roma e in quel periodo, che durava un paio di settimane, ci facevano alloggiare in una specie di convitto tenuto da tremendissime suore che si trovava vicino alle terme di Caracalla.
La domenica tra la prima e la seconda settimana io e il mio compagno di stanza riuscimmo a eludere l’arcigna marcatura di quei mastini travestiti da religiose e noleggiammo una Vespa con la quale girammo Roma in lungo e in largo. Piazza Navona, il Colosseo, il Pincio, Via Veneto… la città si spalancava davanti ai nostri occhi che se la bevevano avidamente perché, come dice Nanni Moretti nel film Caro Diario «In quegli anni Roma era bellissima!»
Dopo una robusta carbonara in un’osteria di Trastevere, districandoci nel caotico traffico romano, arrivammo al mercatino di Porta Portese e ci si aprì un mondo…
C’era di tutto, anzi, persino troppo! In mezzo a quell’atmosfera, diciamo, alternativa il tempo volava via senza che ce ne accorgessimo quando il mio sguardo venne attratto da alcuni strani oggetti su una bancarella che recava la scritta “Er Gitano”.
Mentre cercavo di capire che roba fossero una voce inaspettata mi colpì alle spalle: «Te piaceno eh? Se vede che c’hai l’occhio lungo!»
Mi girai, trovandomi davanti un David Crosby ancora più cialtrone e fumato: Er Gitano!
«Veramente non so neanche che sono…» dissi timidamente al che Er Gitano, come un fratello maggiore, mi mise una mano sulla spalla e disse: «Devi da sapé che nell’URSE la musica rocche nun ce po entrà e allora quarche fijo de mignotta s’è ‘nventato de mettella sulle lastre dell’ospedali e ‘nfatti, si vedi, questo nun è n’osso der braccio?»
Aveva ragione! Sotto i suoi occhi divertiti mi rigiravo tra le mani questo disco dai contorni grezzi e approssimativi sul quale c’era solo una sigla e si vedevano chiaramente le ossa di una mano e del polso.
Quando, stupito, gli chiesi la musica di quale artista contenesse quella lastra più o meno rotonda che, mi accorsi, costava uno sproposito, lui mi rispose: «Che te frega? Questi nun se compreno pe’ ascoltà a’ musica, ma perché so’ rari… e si te pare che costeno troppo pensa che c’è gente beccata co’ questi addosso ch’è sparita pe’ sempre».
Un po’ perché non avevamo assai soldi, un po’ perché non eravamo del tutto convinti, salutammo Er Gitano dicendo che s’era fatto tardi e ci allontanammo facendo rombare il Vespone 150 GS che ci aveva scarrozzato per Roma lasciando dietro di sé nuvolette azzurrine di miscela al 2%.
Grazie a uno stratagemma riuscimmo a ricomparire dentro il convitto in tempo per l’ora di cena con gli occhi ancora pieni delle immagini di quella giornata irripetibile che durante la notte non smettemmo di rivivere.
Per una di quelle strane combinazioni che qualcuno chiama “serendipity”, l’altro giorno il mio sguardo è stato attratto da un articolo dal macabro titolo di “La Musica Delle Ossa” e, se avete ancora pazienza, vi riassumo quello che diceva…

“In URSS, durante la guerra fredda, era severamente proibito ascoltare qualunque forma di musica occidentale, dal Jazz al Rock’n Roll, e chi veniva colto a contrabbandare quei dischi veniva imprigionato per “attività anti sovietica” con conseguenze molto serie.
Gli ingegneri Bogoslowski e Taigin ebbero la straordinaria idea di diffondere quella musica proibita con un metodo a dir poco geniale: tramite uno speciale tipo di torchio, la incidevano direttamente su vecchie lastre radiografiche raccattate nella spazzatura degli ospedali che, poi, ritagliavano con le forbici per ricavare la forma rotonda e bruciavano al centro con una sigaretta per creare il foro per il perno del giradischi.
Con questo processo ottenevano prodotti a 78 giri dalla qualità piuttosto bassa e che si deterioravano facilmente ma che, d’altra parte, costavano solo un rublo e mezzo ed erano facilmente riproducibili su ogni tipo di giradischi.
Proprio perché incisi su supporti sui quali si vedevano le radiografie di costole e di altre ossa umane, quei dischi presero il nome di Roentgenizdat, tradotto in inglese come “Bone Music” (musica delle ossa).
Così ebbe inizio un coraggioso fenomeno clandestino, alimentato da venditori ambulanti che “spacciavano” questi rudimentali dischi, grazie al quale migliaia di giovani russi entrarono in contatto con la musica che ascoltavano i loro coetanei occidentali e nacquero le prime band che si esibivano di nascosto per suonare il rock’n roll in avventurosi concerti improvvisati molte volte interrotti brutalmente dalla polizia.
E io che per tutti questi anni ho creduto che Er Gitano fosse solo l’ennesimo contaballe romanesco che cerca di fregare la gente!
Pensando che anche questa è stata una forma di resistenza all’oppressione della dittatura, chiudo con una scontata citazione dei Pooh: “Chi fermerà la musica?!”

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