Una gita ai faggi monumentali della montagna barghigiana

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Ha un diametro di 3,83 m il faggione di Mollebreta, 4,43 m quello di Monteseccoli, cresciuti di circa 10 centimetri in dieci anni così come i loro “discepoli” che crescono nelle vicinanze. Stanno bene i faggi monumentali della nostra montagna che, assieme agli altri patriarchi verdi (per lo più castagni) si nascondono tra le pieghe dell’alpe di Barga.

Tra chi ne tiene le misure c’è Emilio Lammari, appassionato di storia e culture locali che sa bene che i centimetri di un tronco sono solo la sintesi di un discorso più ampio, fatto di storia, tradizioni, memorie.

Così, per andare a visitare i “faggioni” ha penato bene di coinvolgere la locale sezione dell’Istituto Storico Lucchese ed organizzare una gita – proprio come se si trattasse di una visita a una qualche città d’arte – per far scoprire la magnificenza di certi alberi, ma anche le storie che si sono svolte lì attorno.

Storie di alpeggi, di fatiche dei nostri avi, di pascoli e forse di presenze anche più antiche, in un contesto che ormai siamo abituati a considerare solo come il panorama che si vede dalle nostre finestre. No signori. C’è un mondo che conoscono ormai in pochi ma che ha ancora molto da raccontare.
Come l’alpeggio di Mollebreta, che si incontra scendendo una pista una volta raggiunta la Vetricia e poi Capo Corsonna. Qui la fatica è ancora tangibile quando si incontra un anziano alla guida di un enorme trattore in bilico sul sentiero, carico di legna per l’inverno. Arrivati all’alpeggio l’attrattiva maggiore è certo l’enorme faggio dal fusto nodoso e dalla chioma ramificata, ma anche il contorno non è da meno. Una casa in pietra, una capanna, altri manufatti sembrano lì non ancora dimenticati e la presenza di attività umane è ancora evidente: lo dice il campetto di patate dissodato da poco, o la tettoia per riparare gli animali ancora integra. Qui le famiglie Santi e Marchi hanno tribolato fino a pochi anni fa e per legna, patate e altri frutti, ancora vi fanno riferimento. Una volta sul posto sembra normale. Ma siamo ad oltre mezz’ora da Barga giunti per strade difficili. Qui è la storia della nostra gente, non deve sembrar strano.

Dopo una sosta in questo anfiteatro naturale, dal terreno soffice, che si apre come un palcoscenico sulla valle della Corsonna e, infine, sulla valle del Serchio, è difficile distinguere quale sia il monumento più significativo. L’enorme faggio davanti alla casa; i due discepoli in coppia poco distanti, o l’intero contesto, così pacifico eppure così aspro? Non serve un giudizio, basta riempirsene gli occhi.

Da Mollebreta la pista prosegue per poche decine di metri e poi si assottiglia, si perde, riaffiora su un fianco di roccette e sale svelando i versanti della valle della Corsonna, in autunno generosi di sfumature e di brume.

Si va verso Monteseccoli, altro luogo di vita passata, altra sede di patriarchi verdi. Si è accolti da due “faggioni”, anch’essi in coppia, maestosi ma non quanto il loro maestro, poche decine di metri più in là, oltre le rovine di quella che fu la capanna del Benna, al secolo Giocondo Marchi. Dell’uomo restano solo le pareti interrate e le travature del suo rifugio stagionale; la natura è invece sana e rigogliosa, rappresentata magnificamente da un faggio monumentale ampio, generoso. Ed è qui che la compagnia guidata da Emilio Lammari si ferma (tra l’altro mandando a monte una battuta di caccia lì nei pressi) per misurare l’accrescimento del patriarca e per poi goderselo in tutte le sue prospettive.

La spedizione – era dichiarato fin dall’inizio – non aveva il solo fine scientifico di misurare i faggi ma anche di godere di tutto quel contorno. Con storie, ricordi, divagazioni che hanno accomunato l’eterogenea compagnia.

Queste sono le uscite che, a grande richiesta, Emilio Lammari e la sezione di Barga dell’Istituto storico lucchese organizzano: momenti per scoprire cosa c’è nel nostro passato, per vedere cosa c’è oltre le nostre teste, giacchè ormai ci siamo spostati tutti in pianura e la montagna sembra che esista solo la domenica, per distrarsi dalla vita moderna.

E invece, se si guarda con gli occhi di chi ricorda, di chi ricerca, di chi ha ascoltato, sui sentieri dell’alpe c’è ancora un gran brulichio di vita.

 

(Foto Anna Maria Marchetti, Claudia Bilia)

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