I rastrellati raccontano 4: Antonio Biagiotti e Benedetto Tortelli

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Un ponte di Ostiglia (bombardamento del 26 luglio ’44) – foto tratta da ostigliatreviso.altervista.org

Da Il giornale di Barga, n. 186 del 20-09-1964

I RASTRELLATI RACCONTANO 4: Antonio Biagiotti (1) e Benedetto Tortelli (2)

Da Ostiglia, uno di loro non fece più ritorno: Omero Salvadori

Le Casermette Rosse a Bologna si trovano nelle vicinanze della stazione ferroviaria, la quale poche ore dopo che i rastrellati di Castelnuovo erano giunti, fu oggetto di uno spietato bombardamento aereo. Le Casermette miracolosamente non vennero colpite, ma gli spostamenti d’aria ferirono e contusero alcuni dei rastrellali.

I rastrellali rinchiusi nelle camerate al secondo piano, (…) sotto trauma psichico per la bestiale violenza subita, angosciati, guardavano dalle finestre il polverone che si alzava dalla stazione, ascoltando perplessi le grida di aiuto dei feriti rimasti sotto alle macerie. Un gruppo di rastrellati di Barga era composto da Alberto Cordati, Pietro Mori, Omero Salvadori, Antonio Vannucci, Benedetto Tortelli, Antonio Biagiotti ed alcuni di Fornaci. In quel tragico momento ebbero la dolorosa impressione che per essi sarebbe stato cosa assai difficile ritornare a casa.

Nei giorni seguenti ebbero luogo le visite mediche e l’assegnamento alle diverse categorie. Gli assegnati alla prima categoria pochi giorni dopo furono avviati in Germania attraverso il Brennero, quelli della seconda furono adibiti ai lavori pesanti in Italia, quelli della terza adoperati come mandriani. Leone Bandelloni, Francesco Valdrighi, Omero Salvadori, Benedetto Tortelli, Antonio Biagiotti, Amerigo Poli, Gastone Maiolani ed altri ancora, assegnati alla seconda categoria, furono avviati in provincia di Mantova.

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(1) Ostiglia è un importante centro agricolo-industriale sul Po in provincia di Mantova, congiunta ad un altro importante borgo sulla riva opposta del fiume, Revere. Fino a quando i bellissimi ponti non erano stati smantellati, la vita delle due borgate vicine era regolata dall’intenso traffico che si svolgeva sui ponti. La simpatica cittadina dai cui cittadini fummo amorevolmente aiutati e confortati, è in pianura, le strade sono larghe, diritte, alberate, ampie sono le piazze, gli edifici quasi tutti sono costruiti a mattoni senza intonaco anche i più antichi. Vi sono ad Ostiglia importanti zuccherifici, medie industrie, grandi magazzini-deposito di cereali, commerci e scuole. La produzione agricola della zona consiste in grano, barbabietole, zuccherine e foraggio. Quando noi vi giungemmo nella seconda decade di settembre 1944, molte famiglie erano sfollate nei paesi dell’interno meno battuti dall’aviazione alleata. Tutta la plaga era sotto il controllo dei tedeschi indaffarati a spedire in Germania zucchero, grano, bestiame e quanto altro.

Sotto la costante minaccia delle machine-pistol i rastrellati lavoravano giorno e notte ai loro spietati ordini. L’aviazione alleata aveva smantellato o resi impraticabili i diversi ponti e lunghi tratti della linea ferroviaria Bologna-Verona-Brennero. Fra Revere ed Ostiglia neanche due chilometri in linea d’aria , in sostituzione dei ponti, i tedeschi avevano costruito una teleferica con la quale “scollettavano” sopra il Po tutta la merce ch’essi facevano confluire a Revere. Vi lavoravano squadre di rastrellati giorno e notte a turno, altre squadre lavoravano a riparare i binari ferroviari, ed altre ancora, guidate da soldati genieri, lavoravano a costruire il ponte.

Noi fummo accantonati nei fondi delle scuole elementari. Sul posto trovammo rastrellati di Pisa e di Livorno e qualcuno di Lucca, molto giù di corda. Noi ancora non sapevamo dei bombardamenti e dei mitragliamenti, perciò, contenti d’aver scampato il pericolo della deportazione in Germania, eravamo, come dire, allegri, essendo quasi certi che l’avremmo sfangata. Nei giorni seguenti i mitragliamenti a bassa quota, le angherie dei tedeschi, la fame e i disagi di ogni genere ci riportarono ad affrontare una realtà ben diversa di come l’avevamo immaginata partendo da Bologna.

La mattina dopo del nostro arrivo un gruppo di noi fu adibito alla costruzione di una strada di raccordo al binario ferroviario, dove sui vagoni in sosta venivano caricati sacchi di grano e di zucchine provenienti a mezzo della teleferica da Revere. Il segnale di allarme aereo veniva dato da una vedetta tedesca, sparando tre colpi di fucile in aria. Noi imparammo subito a correre andandoci a nascondere nelle buche anti mitragliamento. Difficilmente gli aerei alleati mitragliavano all’andata, sempre lo facevano al ritorno dalle incursioni in luoghi molto più lontani: allora alcuni di quegli aerei si abbassavano gettando spezzoni e mitragliando. A pericolo passato noi provavamo una certa intima soddisfazione a vedere i tedeschi come noi impauriti e a scorgere in quei duri tratti del volto i segni premonitori della loro disfatta.

Quando il ponte sul Po verso al fine di ottobre fu ultimato e già cominciavano a passare automezzi pesanti, una bella mattina allo improvviso ci capitarono addosso una cinquantina di bombardieri e del ponte e degli accessi fecero uno “spiccichio”. La corrente del fiume si portò via travi, tavole, pezzi di barche. Fu uno scempio. Fra i rastrellati e i tedeschi ci furono morti e feriti, fortunatamente nessuno di Barga.

L’ospedale di Ostiglia era stato evacuato nelle scuole elementari di un paesotto vicino. Cardinala, nel quale ospedale io venni ricoverato dopo il micidiale bombardamento del 13 novembre 1944. A questo punto, però, sarà meglio che lasci la parola all’amico Benedetto Tortelli.

(2) Per alcune settimane anch’io partecipai alla costruzione del ponte e dopo che esso venne distrutto, i tedeschi, rinunciando a costruirne un altro, ci misero a portare i sacchi di grano e di zucchine dal posto di scarico della teleferica sui vagoni ferroviari. Premetto che, per la mia costituzione fisica e con una normale nutrizione, quel lavoro per me sarebbe stato superiore alle forze. Dopo quattro o cinque sacchi non ce la facevo più, facevo pochi passi e il sacco di spalla mi cascava per terra. Compagni, di me più forti, mi aiutavano, e qualche volta anche un soldato tedesco di guardia, il quale, essendo di proporzioni atletiche, ci diceva nel suo poco italiano d’essere stato un pugile o lottatore e d’essersi battuto diverse volte con Erminio Spalla. Era tanto buono che non sembrava neanche fosse tedesco. Fortunatamente c’erano gli allarmi aerei che a volte duravano anche un’ora, e durante l’allarme non si lavorava.

Quando sentivamo i tre colpi di fucile io e l’Omero Salvadori correvamo a ripararci nella nostra buca. L’Omero pensava sempre a casa, alla moglie, ai figli, il più grande dei quali non aveva tredici anni. Diceva: – Cosa faranno? Dì, cosa faranno?. Rispondevo: – Oh! Omero, cosa vuoi che facciano? Aspetteranno che finisca. Allora lui faceva progetti sul come scappare. Ciò avvenne dopo la fuga di un rastrellato della cui mancanza i tedeschi si accorsero alcune ore dopo. Dicevo all’Omero : – Se scappiamo, dove andiamo? Siamo senza documenti, non abbiamo soldi; se poi ci dovessero riprendere, sai tu cosa ci potrebbero fare? Meglio restare e aspettare. Mentre parlavamo sottovoce, gli aerei alleati sempre in maggior numero passavano alti da sembrare stormi di tordi, il rumore di quei potenti motori faceva tremare la terra. Nessun caccia si alzava a contrastarli, io non so dove fossero diretti, ma penso che andassero in Germania. Nessun caccia tedesco si alzava.

Sdraiati riversi nella buca, io e l’Omero li guardavamo passare e qualche volta abbiamo cercato di contarli, ma non era possibile stargli dietro erano troppi. – Almeno finisse presto questa agonia! dicevamo io e l’Omero, tutte le volte che davano il segnale di cessato allarme e ritornavamo a portare i sacchi sui vagoni. Dopo i Santi, per diversi giorni, nei primi di novembre, passammo alcuni giorni senza allarmi ed io per il troppo lavoro non mi reggevo più in piedi. Di questa tregua aerea i tedeschi approfittarono per intensificare il lavoro della teleferica. I collaboratori degli alleati, partigiani e gappisti, certamente dovettero con la radio avvertirli e dal 10 novembre in avanti fummo continuamente bombardati e mitragliati. Avevamo avuto dei morti e diversi feriti, ma fortunatamente ancora nessuno di Barga e di Fornaci. Diceva l’Omero: – Benedetto, qualche volta ci fregano, qualche volta ci fregano. Io tacevo, eravamo tutti con i nervi a fior di pelle.

Il 13 novembre, alle nove del mattino, avemmo il primo segnale di allarme aereo. Io e l’Omero corremmo a ripararci nella nostra solita buca. Sentivamo in lontananza l’angosciante rumore degli aerei che si avvicinavano, ma ancora non si vedevano. Entrambi eravamo tanto impauriti che neanche ci scambiavamo una parola, come di solito facevamo anche per farci coraggio. Giunti nelle vicinanze, gli aerei si allargarono, una parte andarono a sganciare su Revere, gli altri nelle nostre vicinanze. Vedemmo venir giù un grappolo di bombe, tirammo un urlo, forse il povero Omero chiamò la moglie, forse i figli, non ricordo, chiamò qualcuno… Un uomo ci cascò addosso e con lui fummo ricoperti da due metri di terra.

Passata l’incursione, i compagni, dove noi eravamo sepolti, con pale e badili si affannarono a rimuovere il terriccio. Mi dissero poi che il lavoro senza sosta durò per quasi un’ora, mentre è noto che sotto un metro e mezzo di terra si ha vita soltanto per quattro minuti. Infatti esumarono due cadaveri, quello del povero Omero, quello di un rastrellalo pisano con moglie e quattro figli, e me. Nessuno aveva riportato ferite, la morte era avvenuta per soffocamento. Io forse mi salvai, perché il pisano, gettandosi su di noi, sopra di me fece ponte, e potei avere una riserva d’aria da resistere fino all’esumazione.

Racconto ciò che mi dissero dopo. Non davo segni di vita e, credendomi morto, i compagni mi caricano su di un camion con gli altri cadaveri e mi portarono nella cappella mortuaria del cimitero. Mentre stavano per uscire fuori dal cancello, il becchino di fondo dallo stradone si mise ad urlare: respira! respira!

Era avvenuto questo: il becchino, nell’alzarmi le braccia per comporre la presunta salma, si accorse che avevo emesso un sospiro smorzato, mi alzò ed abbassò più volte le braccia e, resosi conto che io continuavo a respirare, sia pure debolmente, si mise ad urlare: respira! respira!

I compagni, di corsa, tornarono indietro, mentre qualcuno di essi volò a chiamare un medico. Essi continuarono a praticarmi la respirazione artificiale e a massaggiarmi il cuore: ripresi i sensi, e aprii gli occhi e svenni. Il medico, sopraggiunto di lì a poco, mi praticò le cure del caso, ed allora compresi che mi trovavo al cimitero nella cappella mortuaria. Mi caricarono sul camion, ma nel momento di partire avemmo un’altra incursione aerea e fui lasciato sul camion col motore acceso. Terminata l’incursione, tornarono, ma, appena fatti un cento metri, l’autocarro si fermò perché nel frattempo aveva esaurito la benzina. Messomi allora su di un carretto agricolo con l’aiuto di un prete, mi portarono al dormitorio dove arrivai più di là che di qua. Nella nottata ebbi quaranta di febbre, mi dissero i compagni che vaneggiavo. Certo, se ancora sono vivo lo debbo ai medici, alle suore, agli infermieri dell’ospedale di Cardinala.

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Commenti

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  1. Buona sera. Mi chiamo Paolo Prossen e sono figlio di Suzanne Salvadori, figlia di Omero e Jeanne, nata a Nizza nel 1933. Aveva un fratello più grande, Fredi. Non tornò più a Nizza dopo la guerra e mia madre non ne seppe più nulla, restando orfana poco dopo. Vorrei sapere se l’Omero di cui parlate possa essere mio nonno. Grazie.

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