Il giovane favoloso di Mario Martone

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Chi avrebbe pensato che si potesse raccontare Giacomo Leopardi al cinema? Eppure la vita del poeta recanatese sembra avere tutte le caratteristiche per stare dietro ad una macchina da presa: rapporti difficili con la famiglia, grandi ideali, amori non corrisposti, viaggi senza ritorno. A prendere in mano questa materia e darle forma è stato Mario Martone, e a mettere la pietra d’angolo nella riuscita è stato Elio Germano, straordinario e misurato interprete.

La storia è quella che impariamo sui libri: il contino Leopardi cresce nella paterna casa di Recanati, in pieno Stato della Chiesa, sotto il controllo degli oppressivi genitori (Massimo Popolizio è un ottimo Monaldo). Il padre un merito ce l’ha: mette a disposizione dei figli l’immensa biblioteca raccolta in anni di studi ed interessi. Leopardi cresce e si affanna su quei libri, minandosi irrimediabilmente il fisico; c’è una cosa però che differenzia la sua formazione da quella degli antenati: il periodo in cui vive. Leopardi è figlio dell’epoca delle Rivoluzioni, questa nuova parola esecrata dalla sua famiglia e dall’ambiente sociale. I libri – e il rapporto con Pietro Giordani (Valerio Binasco) – gli hanno aperto la mente e Recanati è troppo conservatrice e angusta per contenere le sue speranze, la sua ricerca. Flash forward: dieci anni dopo Leopardi sta a Firenze con l’amico Antonio Ranieri (Michele Riondino, nota stonatissima ed atroce di tutto il film). Sopravvive coltivando un amore senza speranza per Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis) e con l’aiuto economico degli amici letterati del Gabinetto Vieusseux. Le delusioni e i bisogni materiali lo costringono però a rivolgersi alla famiglia per un sostentamento. Gli ultimi anni li passa a Napoli dove, tra il colera, i bassifondi e la vicinanza dei fratelli Ranieri, sembra trovare finalmente la serenità nelle ginestre che resistono, aggrappate al Vesuvio.

Fotografia ottima, colonna sonora opportuna, buoni interpreti. Il film si compone di questi blocchi sequenziali, uniti da un phil rouge: quello della ricerca. Cosa ricerca Leopardi?

1. La propria voce. Qui la recitazione di Germano è esemplare: soprattutto nella parte recanatese (non a caso l’episodio marchigiano rasenta il capolavoro, mentre gli altri due blocchi sono assai discontinui). A Recanati Giacomo sta quasi sempre in silenzio. Non comunica; se lo fa è sottovoce, a testa bassa, quasi faticando ad esprimere quello che ha in cuore. Esemplare la scena in cui, tenuto in scacco dal padre e dallo zio dopo la tentata fuga, cerca di spiegare le proprie ragioni con calma e tremore, mentre nella propria testa le urla a squarciagola. Passiamo a Firenze: comunica, ma timidamente. Cerca di piacere, di ingraziarsi l’opinione altrui; ma è una situazione che lo spossa, un atteggiamento che lui stesso avverte innaturale. Napoli: Giacomo comunica, eccome. La discussione è sempre sulla punta della lingua: con gli altri “intellettuali”, con Ranieri. Ha trovato la propria voce e la tira fuori anche quando agli altri non piace.

In tutto questo il merito di Germano è indubbiamente averci restituito un’immagine molto umanizzata di Leopardi: un genio sì, dall’intelligenza incommensurabile, ma anche un semplice uomo coi suoi afflati.

2. Una speranza. Il famoso pessimismo cosmico e la natura matrigna li abbiamo imparati a memoria a scuola. Per capire cosa invece vuole comunicare il nostro film riprendiamo un attimo le parole di Silvio Orlando ne “Il portaborse” di Luchetti : Leopardi, pessimista? Non è vero affatto. Lui aveva l’ottimismo di credere nella forza purificatrice dell’atto poetico. E poi, come scrive il Binni, se non fosse morto nel ’37 … ce lo saremmo trovati nel quarantotto sopra le barricate. Questo è il Leopardi di Martone: va avanti armato del proprio coraggio che lo spinge a abbandonare la casa paterna e a peregrinare per l’Italia, alla ricerca del senso di questa esistenza tanto buia e destinata alla sofferenza (le cosiddette “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità decantate da altri). Forse lo troverà in quella ginestra appesa lungo le pendici del Vesuvio, che nonostante la minaccia distruttrice del vulcano e il destino di morte che l’attende, rimane lì, per ribadire la propria ostinata resistenza ad una vita tanto avversa.

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