Daniele Luchetti conclude la propria riflessione sulla famiglia che è stata il phil rouge tra i suoi ultimi lavori (Mio fratello è figlio unico, La nostra vita).
Nella Roma degli anni ’70 i piccoli Dario e Paolo (Samuel Garofalo e Niccolò Calvagna) vivono sballottati tra due genitori molto diversi eppure innamoratissimi. Guido (Kim Rossi Stuart) è un artista d’avanguardia che, giorno per giorno, si barcamena tra velleità intellettualistiche e fallimenti professionali, spaventato dall’idea che la propria esistenza cada in quel modus vivendi “convenzionale” che tanto detesta. Serena (Micaela Ramazzotti) è una mamma e moglie, forte delle proprie consolidate origini borghesi e convinta che il suo posto non possa esulare dal fianco del compagno. Vittima dei tradimenti e delle frustrazioni di Guido, grazie all’aiuto del movimento femminista e di un’amica (Martina Gedeck), tra i molteplici (e non sempre concreti) ideali libertari dell’epoca, capisce gradualmente di poter trovare un proprio posto nel mondo.
L’analisi di una famiglia tradizionale in epoca di cambiamento è, nel caso di Luchetti, parzialmente autobiografica (come si deduce anche dalla presenza della voce narrante che è quella del regista). Luchetti non vuole però raccontare tanto la storia del proprio nucleo familiare, quanto rappresentare attraverso la figura dei due genitori il difficile e a volte sconclusionato percorso di cambiamento vissuto dall’Italia, dalla società, dalla morale comune nel corso degli anni ’70.
Un padre che cerca continuamente l’evasione: nel lavoro, nella vita amorosa, nelle responsabilità, e che in tutto questo non è in grado di sfuggire da una educazione tradizionale, che lo porta a non accettare un ruolo della moglie che vada al di là della semplice passività e affezione. Quello di “voler essere” un artista anticonvenzionale a tutti i costi lo porta cercare un’arte provocatoria e scandalosa – alla luce del costume dell’epoca – ma che in realtà è vuota, artificiosa e di insuccesso proprio perché dietro a sé non ha niente da dire. Il che si palesa realmente nel finale, al momento in cui le vicende occorse lo hanno condotto a maturare un tipo di sentimento che trova sfogo nella sua opera: il successo arriva finalmente quando l’artista ha davvero un qualcosa da comunicare.
Una figura diametralmente opposta, quella della madre. Convenzionale e stereotipata, tutto ciò che il di lei marito disprezza. Dà da pensare come in realtà questo personaggio rappresenti perfettamente il ristrettissimo orizzonte mentale, il solo, che molte donne negli anni ‘70 potevano avere: la casa, il matrimonio, la maternità. L’attraversare una epoca di inquietudini e cambiamenti sicuramente contribuisce a stimolare la ricerca di Serena: l’acquisizione della consapevolezza che può esistere qualcosa di diverso, la sterilità del “dover essere” per forza solo madre, moglie, donna di casa e quant’altro si accompagnano ad un percorso di ricerca che il regista rappresenta però in modo banalizzante e scarno di contenuti. Non si acquisisce la conoscenza di sé e l’equilibrio né attraverso le trasgressioni né attraverso sconclusionate libertà che in realtà non sono tali.
In questo pecca il film di Luchetti: è convenzionale. Esattamente quel convenzionale che il protagonista tanto aborrisce. Quella a cui assistiamo è una storia potenzialmente molto interessante ma che viene narrata con superficialità e una enorme incertezza sul far prevalere la storia privata e intima dei protagonisti o il cambiamento epocale, senza riuscire a far sposare i due aspetti. Sprecato il cast, tenuto troppo a briglia corta.
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