Gli amici del Bar Margherita

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GLI AMICI DEL BAR MARGHERITAdi Pupi AvatiItalia 2009 —-In questa stagione cinematografica Avati ha fatto la doppietta: a ottobre era uscito Il papà di Giovanna; sotto Pasqua abbiamo Gli amici del bar Margherita. I due film possono dirsi estremamente differenti non solo come contenuti, ma anche per quanto riguarda il risultato: tanto la prima pellicola era discreta e toccante, tanto l’ultima è bolsa e imbarazzante.Siamo nella Bologna del 1954: un ragazzetto senza né arte né parte da tutti conosciuto come Coso (Pierpaolo Zizzi) ha come massima aspirazione, oltre a conquistare la ragazzina che lavora in biblioteca, di entrare a far parte della cerchia del bar Margherita, un caffè dominato da una serie di instabili e sarcastici personaggi e, chissà, riuscire ad entrare nella loro tradizionale foto annuale.C’è Al (Diego Abatantuono) il capetto, grande campione di biliardo e frequentatore di night; Bep (Neri Marcorè) timido giovanotto che gli amici cercano di salvare da un matrimonio sgradito facendolo innamorare di un’avvenente entreneuse (Laura Chiatti); Manuelo (Luigi Lo Cascio) siculo
ninfomane riciclato rivenditore di macchine rubate; Gian (Fabio de Luigi) elettricista balbuziente che sogna il festival di Sanremo; eccetera. Il piccolo Coso alterna le sue giornate tra questo bel posto e casa, dove la mamma (Katia Ricciarelli) è preoccupata perché il nonno (Gianni Cavina) alla bella età di ottant’anni ha deciso di prendere lezioni di pianoforte da una napoletana (Luisa Ranieri) che tutto sembra tranne maestra.
Va detto che si tratta di un film autoreferenziale: Coso non sarebbe altro che il giovane Avati, quando ancora era un nessuno e frequentava i lidi bolognesi e i loro strani personaggi; la scena finale sarebbe esplicativa del fatto che Coso si tira fuori dalla fotografia e guarda gli amici da distanza in quanto premonizione del suo allontanamento a Roma e della sua futura carriera (triste e imbarazzante: non si può fare a meno di pensare con nostalgia a Fellini e al treno dei Vitelloni che si allontana…).
La storia si consuma nell’arco di un anno, senza una vera trama: si sciorinano una sfilza di aneddoti incoerenti (e noiosi, così come sono gli aneddoti da bar raccontati) comunque ben alternati, con finte ed inutili riprese in bianco e nero.
Pare che gli attori, grandi nomi e meritevoli di esserlo, siano sul set solo per un favore personale verso Avati: fanno il loro mestiere ma non aggiungono niente a dei personaggi così poco interessanti che deve essere veramente difficile costruirne non un carattere, ma anche solo una macchietta.
La colonna sonora che accompagna questo amarcord malriuscito e sterile tanta è l’autoreferenzialità è a firma di Lucio Dalla, fuori luogo così come la pellicola.

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