Australia

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AUSTRALIAUSA, Australia 2008di Baz Luhrmann – Luhrmann è un regista decisamente poco prolifico dal punto di vista della quantità (il suo ultimo lavoro, Moulin Rouge, risale al 2001) ma non della qualità; con Australia, per metà cinema classico e per metà epico kolossal, realizzato con enormi mezzi e fatiche, regala molto più di quanto aveva promesso in questi anni.Nel 1939 Lady Sarah Ashley (Nicole Kidman) abbandona la natia Inghilterra per raggiungere il marito nella loro proprietà australiana, terra sconfinata e ricca che fa gola ai tanti possidenti locali, in particolare a Lord Carney (Bryan Brown). Questi, in combutta con Neil Fletcher (David Wenham) disonesto amministratore di casa Ashley, ne sta rubando le mandrie per poter acquistare la proprietà ormai in crisi a prezzo ribassato oltreché spazzar via la concorrenza per un’ingente commessa di capi di bestiame all’esercito. Lady Ashley, chiusi gli occhi al marito morto in circostanze misteriose (e del cui assassinio è accusato uno stregone aborigeno), viene informata del piano dal piccolo Nallah (Brandon Walters), bambino meticcio che vive sotto la minaccia di essere rinchiuso nei famigerati istituti religiosi in cui i “mezzosangue” sono educati a vivere come bianchi; scaccia su due piedi Fletcher e decide di condurre lei stessa la mandria a Darwin, per ottenere la commessa e con i proventi permettere la sopravvivenza del proprio ranch. Ad aiutarla nel viaggio attraverso le sterminate e deserte terre australiane c’è l’enigmatico e rude Drover (Hugh Jackman), inviso a Sarah per i suoi modi bruschi e irrispettosi anche se l’attrazione tra i due sarà inevitabile. Ma non tutto è risolto perché non solo Fletcher continua a tramare contro la coppia ma anche la guerra, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, è alle porte.Il film dura quasi tre ore, tuttavia la storia scorre bene e non si soffre affatto per la lunghezza. Ciò è dovuto al respiro epico cui la pellicola ambisce e che ha rischiato di ridurla ad una sorta di remake di Via col vento; ma la sola cosa in comune che i due lavori hanno è lo sfondo bellico (là la guerra di secessione, qui la seconda guerra mondiale).È fondamentale in Australia l’ambientazione. Questo splendido, selvaggio e sconosciuto continente è il vero protagonista, coi propri paesaggi e con
le proprie tradizioni; ci vengono mostrate terre inospitali, desertiche, piene di fascino; lunghi corsi d’acqua infestati di animali; enormi formazione rocciose e canyon di sabbia rossa: un continente apparentemente familiare ma in realtà estremamente lontano e sconosciuto al nostro immaginario. È il continente in cui è salda la millenaria storia aborigena ricca di cultura, tradizioni spirituali e ritualità sacre; e l’uomo bianco “civilizzato” ha cercato in ogni modo di estirpare la popolazione autoctona con vergognose pratiche razziste e strappando i bambini indigeni (la cosiddetta “generazione rubata”) alle loro famiglie per rinchiuderli nelle missioni religiose dove sarebbero stati educati a rinnegare le proprie origini a favore della società inglese. Tutto ciò viene esplicato dal regista attraverso il personaggio di Nallah, nipotino di uno sciamano, che soffre ma non rinnega la propria diversità, portando avanti le proprie tradizioni e mostrando per mezzo dell’amicizia filiale con Lady Sarah che contatto e affetto possono instaurarsi tra culture diverse, attraverso il rispetto e la condivisione (a partire dalle cose più banali, come una canzone).
Data la lunghezza del film, sono numerosi i temi e le intenzioni trattate ma l’intero film ruota in realtà intorno ad una bella storia d’amore, quella tra la caparbia Lady Sarah e il rude mandriano. I due avranno pure entrambi origini inglesi, ma provengono da mondi completamente diversi: la sofisticata, delicata e nevrotica lady da una parte si adatterà alle terre selvagge sfoggiando una decisione e un coraggio mascolini, mentre l’aspro ed energico mandriano imparerà lentamente e incertamente ad abbandonare un poco della propria misoginia per la donna amata; i due riprendono gli schemi da love story vecchio stile (bisticciano, si innamorano, malintesi, allontanamenti e così via) ma vi danno una nuova pulsione ravvivante, poco sensuale e molto romantica. L’amore quale centro della pellicola non si esaurisce tuttavia nella coppia, ma si irradia in un senso più profondo di affezione umana, e coinvolge ed accarezza con affetto ogni personaggio, pure se talvolta rischia di essere accecante ed egoistico (Sarah cerca, senza comprendere la gravità delle sue scelte, di tenere vicini a sé il mandriano e il bambino a discapito della sete di libertà del primo e delle care tradizioni del secondo).
I caratteri sono ben disegnati e lontani da cliché: senza mai cadere nel manicheismo, ci riportano ad una tradizionale e decisa partizione buoni – cattivi, in cui i primi (ed è una gradevole sensazione sprigionata dall’intera pellicola) sono destinati con difficoltà ma inevitabilmente a vincere.
A tutto ciò la guerra costituisce semplicemente uno sfondo, una scenografia: essa partecipa a condizionare gli eventi ma risulta, nel suo orrore, estranea a un mondo indocile e senza tempo come quello australiano. La dichiarazione d’amore del regista verso la propria terra natale procede senza falli; l’unico rimpianto (o sollievo, a seconda dei punti di vista) è l’abbandono della stile pop e psichedelico tipico di Luhrmann (che affiora solo nel primo, buffo quarto d’ora e in alcuni tratti quali la fotografia luminosa e la curatissima, splendida colonna sonora) a favore di un registro più classico e narrativo.
Una curiosità: nella versione originale il protagonista maschile non ha nome e per tutto il film lo si appella semplicemente “drover”, alla lettera “mandriano”; purtroppo il doppiaggio ha scelto di mantenere l’appellativo in inglese, nascondendo l’affascinante scelta degli sceneggiatori.

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