Come dio comanda, l’ultimo film di Gabriele Salvatores

-

COME DIO COMANDAIta 2008di Gabriele Salvatores – Nel 2001 Salvatores realizzò dal bel racconto di Niccolò Ammaniti un bel film intitolato “Io non ho paura”. Quest’anno la collaborazione si ripete altrettanto fortunatamente con lo splendido romanzo che valse ad Ammaniti il Premio Strega nel 2007 ed enorme successo letterario.Siamo in un luogo imprecisato nell’Italia del Nord Est: montagne e bellezze naturali si alternano a deturpanti fabbriche e cave. Nella periferia di una cittadina in una casetta fatiscente Rino Zena, giovane padre disoccupato, alcolizzato e neofascista (Filippo Timi) si trova a crescere da solo il figlio quattordicenne Cristiano (l’esordiente Alvaro Caleca), isolato e disprezzato dai suoi coetanei, in particolare dalla bella Fabiana (Angelica Leo).
Il papà lo alleva come un vero lupo con il proprio cucciolo: lo educa alla violenza, alle botte, alla diffidenza, alla sopraffazione. Nonostante ciò (e per ciò) i due sono profondamente legati e sopravvivono l’uno per l’altro, continuamente in lotta contro il severo assistente sociale (Fabio De Luigi) che minaccia di separarli e mandare il ragazzino in riformatorio. L’unico amico di questa strana famiglia è il “matto” Quattroformaggi (Elio Germano) ex compagno di lavoro di Rino, che trascorre le sue giornate a costruire uno strano presepio e a guardare film porno. Una notte Rino riceve una strana telefonata ed esce di corsa sotto la pioggia: è successo qualcosa, qualcosa di terribile con cui ogni personaggio dovrà raffrontarsi e che cambierà le loro vite.
Il film ha una struttura ben precisa, scandita in tre parti: un primo segmento che ci presenta i protagonisti e il luogo dell’azione; una seconda parte, lunga e fondamentale, accompagnata dalla canzone “She’s the one” di Robbie Williams e ambientata in una boscaglia notturna battuta da una pioggia torrenziale; un terzo segmento in cui si cerca disperatamente di rimediare ai terribili episodi consumatisi in quella notte. Va detto che questo percorso nella sua interezza ricopre al massimo quattro – cinque giorni, ma parte da una situazione disperata che intuiamo sia già in atto da anni. Abbiamo un ambiente ostile: ostile è lo sfondo, dove le splendide cime sono scavate alle viscere da gru ed esplosioni, i larghi, millenari letti dei fiumi sono attraversati da scavatrici e cumuli di sassi, le vallate sono occupate da ville ed edifici ugualmente anonimi. Ostile è il cielo, perennemente nuvoloso, che si muove solo per far scendere la neve o la pioggia; ostili sono i colori chiari e freddi, quasi accecanti. Ostile è soprattutto la gente, chiusa e ignorante, indifferente e misantropa. Questo teatro fa da sfondo agli strani protagonisti, estranei ed isolati rispetto a questo cosiddetto consesso “civile”: un ragazzino serio e solitario, un padre che lo educa alla fede nella svastica, un matto gentile i cui giochi rischiano di sfociare in crudele maniacalità, un assistente sociale che preferisce le parolacce ai discorsi di incoraggiamento. Eppure questi personaggi, nei loro difetti e anormalità, sembrano tanto più umani della freddezza collettiva che li circonda: l’assistente sociale copre coi metodi bruschi una sincera preoccupazione (nonostante sia consapevole della disastrata situazione in cui vivono i suoi assistiti esita a contattare definitivamente il tribunale per deciderne la separazione; cerca insistentemente la vicinanza con Cristiano nonostante trovi sempre porte sbattute); Quattroformaggi è solamente un poveraccio, quasi un bambino incapace di dosare le proprie forze e le proprie emozioni: è rimasto invalido sul lavoro, e si è costruito un proprio mondo in cui le statuine trovate per strada formano uno speciale presepio (i Puffi si confondono ai pastori, i Pinocchi agli angeli, il muschio alle ciminiere), e in cui il volto in fermo immagine di una pornostar è disegnato sullo schermo del televisore, cui sono appese due braccia di gomma, per simulare carezze e manifestazioni d’amore e sesso.
Ma il vero fulcro di tutta la pellicola è il rapporto padre-figlio: il cuore di un cast che dà una prova straordinaria. Salvatores si è domandato: un amore malato è sempre amore? Poiché non c’è gesto tra genitore e ragazzo che mostri un rapporto normale. Rino insegna a Cristiano a picchiare, ad usare le armi, a odiare gli extracomunitari, lo porta in macchina a cercare i ragazzi con cui fare a botte, lo loda per un tema a sfondo razzista. Trascorre le sue giornate a bere birra su una branda, ad aspettare Cristiano fuori dalla scuola: dopo anni di lavoro a nero è stato scaricato senza cerimonie, per far posto alla manodopera fresca da sfruttare. Eppure ha la sua strana etica: prende a pugni chi maltratta l’amico menomato, butta fuori di casa una ragazza rimorchiata perché si accorge che è drogata, teme di toccare uno scoiattolo che gli è corso sulle ginocchia, obbliga il figlio a dargli una testata per imparare a colpire. C’è un amore cieco tra i due: si può dire che Rino dà a Cristiano un’educazione violenta, ma non che è violento con lui. Le scelte di Rino manifestano un disperato desiderio di insegnare a Cristiano a difendersi dall’ostilità del mondo esterno, a difendere sé stesso e il loro rapporto che è l’unica cosa su cui possono contare. Da parte sua Cristiano risponde con un’adorazione cieca, un affetto smisurato, una costante volontà di primeggiare agli occhi del padre, di compiacerlo. L’amore, la tenerezza apparentemente repressa nell’intero film si sfogano in una bellissima scena finale che colpisce direttamente al cuore dello spettatore.

Tag: , , ,

Lascia per primo un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.