Aggiungi un posto a tavola… a Pasqua

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Nel marzo 1904 Maria Pascoli, sorella del poeta, scrive ad Attilia Caproni, figlia dello Zi’ Meo e governante della casa di Castelvecchio, annunciandole l’imminente arrivo per Pasqua:

“Speriamo di stare allegri in queste vacanze di Pasqua e di fare molte merende e merendelle (…). La sera di martedì vorremmo un arrostino allo spiedo o di manzo o di vitello o di abacchio (sic) con patatine alla ghiotta e insalatina tenera e profumata. Senta il Gigetto Nardini se ha una soma di vino leggero adattato per noi”.

Questa lettera ci introduce ad un argomento principe delle feste pasquali: il cibo in tavola. Il nostro territorio è (o è stato) caratterizzato da numerose tradizioni culinarie, parenti meno illustri di prelibatezze come le pastiere napoletane o le colombe, ma altrettanto gustosi.

Un piatto che non poteva mancare sulle tavole del Barghigiano erano le torte, dolci o salate. A tal proposito il canonico Pietro Magri nel suo libro “Il territorio di Barga” (1881) riporta una tradizione degli abitanti della parrocchia di Loppia: “Nella Pasqua di Resurrezione generalmente i nostri coloni fanno le così dette torte di farro, ed è per loro uno sfarzo. Ora se avviene che vicino alla Pasqua muoia qualche persona in una di queste famiglie, non le fanno a motivo del lutto che osservano scrupolosamente, ma i parenti si tengono in dovere di portargliene una per famiglia; ed avviene che qualche volta, a seconda della parentela più o meno numerosa, si ritrovino in una sola famiglia cinque, sei, otto e anche dieci torte. Il costume non sarebbe brutto, il peggio è che coteste famiglie son tenute a dar merenda ai portatori, il che non sempre agguaglia l’entrata coll’uscita”.

Un ingrediente fondamentale nella tradizione culinaria (ma non solo) di questo periodo è l’uovo. Come ricorda Maria Francioni nel libro “La vecchia Barga”: “Giorno per giorno si mettevano da parte le uova. Se ne offrivano al prete che veniva a benedire la casa, una dozzina si portavano al dottore che spesso non richiedeva compensi per le sue visite; ne occorrevano tante per le torte e le schiacce, dolci tradizionali, che si preparavano piuttosto in abbondanza, anche perché solo nelle grandi festività arricchivano la mensa”.

Le uova però, secondo una tradizione ancora oggi rispettata, si consumavano anche sode. Le uova vengono fatte bollire con fiori o foglie, per favorirne la colorazione, aceto per fissare il colore, o pitturate dopo l’ebollizione. Sode, vengono portate a benedire durante le celebrazioni religiose e poi consumate per Pasqua o Pasquetta.

Attilia Caproni vista da Giovanni Pascoli

A proposito di uova e galline, ricorda Alma Castelvecchi sulle pagine del nostro Giornale (marzo 2002): “La gallina che fa le uova, a Pasqua, non andrà in pentola, vuoi per “colmare” l’economia familiare, vuoi perché, secondo un detto popolare, “gallina vecchia fa buon brodo” (…). In Pasqua ce ne vogliono in abbondanza: tante per le uova sode, tante per la pasta e lo sformato, tante per le torte di riso”. E aggiunge: “Per Pasqua e per Pasquetta sul tavolo non devono mancare due cose: il piatto delle uova sode contornate da rametti di ulivo benedetto e la torta di riso”. A proposito di torta di riso, si usa “un po’ dappertutto, dolce o salata, ma quella barghigiana è un’altra cosa, per la sua particolare fragranza. Sono parecchie le persone che conoscono i segreti, le accortezze, gli aromi che rendono la torta un vero bijou (…). Chi preferisce tingere di rosa il riso con l’alchermes, chi invece mette la cannella, il rhum o il sassolino. Ognuno ha le sue preferenze. Dalla fornata esce sempre una torta, ben fatta, con i becchi, per donare a qualcuno in forma di gentilezza e di riconoscenza”

L’altro dolce citato dalla Francioni invece, la “schiaccia”, non è altro che la pasimata, classico dolce garfagnino, che a Barga prende il nome di “schiaccia”, forse per l’influenza fiorentina viva sul nostro territorio.

A proposito di schiacce barghigiane, o meglio castelvecchiesi, sappiamo che il poeta Giovanni Pascoli ne era ghiotto. Aspettava puntualmente la Pasqua per gustare quelle della sopracitata Attilia Caproni, che gliele preparava a Castelvecchio o gliele spediva nelle città dove lui si trovava per l’insegnamento.

Così scriveva preoccupato ad Attilia, nell’approssimarsi della Pasqua 1911, per non aver ricevuto ancora la “schiaccia” e il cappone tanto attesi: “Cara Attilia, non so se tu abbia deciso di mandarci la schiaccia dopo Pasqua. Fatto è che non l’abbiamo ricevuta. La riceveremo? O faremo la Pasqua asciutta asciutta?”. Per dar forza alla sua apprensione, alla lettera il poeta accludeva un disegno della Attilia, raffigurata con la schiaccia in mano e la testa d’asino (epiteto che spesso le affibbiava).

Commenti

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  1. Frank Viviano


    Grazie Sara, per questo meraviglioso ritratto delle tradizioni pasquali – raffigurate alla tavola di Pascoli, il poeta più eloquente della vita rurale italiana. La storia è al meglio.

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