Venne il giorno in cui, per la prima volta, entrai nella scuola di Catagnana per l’iscrizione alla prima elementare e ciò che mi colpì furono i banchi grigi, di legno, aventi ognuno due posti. Non li avevo mai visti e ne volli provare subito uno! Non era poi tanto male!
Ricordo che il primo giorno di scuola la maestra Maria Mariucci ci fece disegnare e copiare la parola UVA.
Eravamo tanti bambini, una pluriclasse numerosa con cinque alunni in prima, tre in seconda , almeno due in terza e parecchi in quarta; la quinta non c’era.
I più grandi, quando avevano finito di svolgere le loro attività, aiutavano i più piccoli e poi finalmente arrivava l’ora della ricreazione e… tutti fuori a giocare all’aperto! La maestra ci preparava anche il budino sulla stufa a legna,intorno alla quale ci radunava tutti quando era particolarmente freddo e magari ci leggeva un bel libro di favole…
Era un’insegnante molto paziente, calma e quasi sempre sorridente; noi bambini la consideravamo quasi una seconda mamma, che, come tutte le madri, ogni tanto perdeva la pazienza ! Questo successe quando un’alunna bucherellò tutta una pagina del quaderno cancellando troppo, dopo tutte le raccomandazioni che ci aveva fatto di usare poco la gomma… A quel punto si arrabbiò tanto che le dette zero. La bambina, piangendo, ci disse: “Dite che è brava ? Brava un corno !”
A metà anno arrivavano i nuovi quaderni Pigna, offerti dalla banca ed i barattoli di cioccolata per la merenda, così la maestra ci faceva portare solo la fetta del pane, su cui stendeva il cioccolato.
La prima volta in cui lo fece, io avevo già una fetta di pane con olio e zucchero e per aver la cioccolata, la girai dall’altra parte. La maestra se ne accorse ma non disse niente!
Vedendo che io mangiavo il pane casereccio, chiese a mia madre se gliene vendeva uno ogni volta in cui lo faceva: si trovarono d’accordo sul prezzo di 200 lire…
La scuola di Catagnana, nel ’64, forse era stata costruita da poco, perché non aveva ancora la targa con su scritto il nome. Un pomeriggio arrivò un operaio ed attaccò vicino al portone la scritta “Scuola elementare”. Io la mattina dopo, davanti alla maestra, ci lessi: “scuola elefante”, fra le risate dei compagni!
Il giardino era ancora un prato poco curato e senza alberi, gli operai del Comune piantarono parecchi pini proprio in quell’anno, poi ci portarono la stufa a legna nuova della Warm Morning al posto di quella di terracotta rossa e per ultimi arrivarono tavoli nuovi al posto dei banchi di legno.
A scuola avevamo anche una vecchia sedia con la paglia tutta rotta; io la portai a mio fratello che brontolò un po’, ma poi la fece tornare come nuova!
In prima non ricordo perché, pranzavamo a scuola: la signora Rosa cucinava a casa sua, una ventina di metri più in là della scuola e poi veniva ad apparecchiare e ci seguiva per l’intero pasto. Spesso, come contorno, ci preparava il radicchio, che a me non piaceva e così, di nascosto, lo buttavo in terra. Ci sedevamo però sempre allo stesso posto, così fui scoperta facilmente e mi presi una bella ramanzina sia da Rosa che dalla maestra…
Durante l’anno scolastico la maestra ci chiese di portare a scuola vari piccoli oggetti, adatti a creare la decina in matematica; proprio in quel periodo era facile trovare nel detersivo per panni Tide dieci ochette colorate; io non le avevo, ma sapevo che mia cugina le aveva trovate e, siccome lei era cinque anni più grande di me, speravo me le regalasse. Andai a casa sua, ma lì per lì non ci fu niente da fare, poi l’intervento di mia zia, il mio pianto e la promessa di restituirle a fine anno convinsero Annamaria ad accontentarmi!
Ad un certo punto dell’anno, però, scomparvero e la maestra cominciò ad indagare per scoprire il colpevole. Siccome non si trovava, una mattina ci mandò nel corridoio uno alla volta, a svuotare le tasche di grembiuli e pantaloni, così il colpevole sarebbe rimasto anonimo, ma avremmo avuto di nuovo le nostre decine. Non so come scoprì il ladruncolo, ma ricordo che lo tenne in punizione vicino a lei per parecchi giorni, con la scusa che doveva approfondire le sue conoscenze storiche.
Quando lavoravamo con impegno, precisione e autonomamente la maestra ci dava anche il massimo, 10 e lode, ma quello che non capivo era perché, se un giorno lo prendevo io, dopo poco tempo lo riceveva anche la mia compagna di banco e viceversa. La maestra , ben presto, aveva capito che eravamo gelose una dell’altra… Io ero la tipica alunna brava, precisa, diligente, studiosa ma povera: vestita con abiti lisi, maglie rammendate, lei, la figlia unica di un ferroviere, con una nonna benestante… però non riusciva a battermi, almeno in matematica. Nello studio siamo state tutta la vita compagne di banco rivali, nella vita buone amiche…
Anche l’insegnante di Religione, don Piero Giannini, si era accorto di questa piccola e sana rivalità nelle gare che organizzava. Lui e la maestra avevano infatti diviso la pluriclasse in due squadre, con tanto di stemma cucito sui grembiuli (da mia sorella): gli Scoiattoli, con la mia compagna di banco come capitano e gli Aquilotti, guidati da me. Questa divisione serviva sia per Religione che per le altre materie. Ricordo che un anno, prima di Pasqua, don Piero arrivò con due belle uova e tante caramelle per tutti. L’uovo più grande era per il vincitore della gara e l’altro per tutta la classe insieme alle caramelle. Dovevamo scrivere tutto il “Credo” nel minor tempo possibile ma le due squadre lo fecero contemporaneamente, allora lui si mise a contare gli errori ortografici, che io non avevo corretto perché pensavo fosse solo una gara di memoria e velocità: così l’uovo più grande andò al capitano degli Scoiattoli. Ma quando fu tirato a sorte il nome del secondo vincitore, come per incanto comparve il mio!
Una mattina, forse ero in seconda, la maestra non arrivò; giunse al suo posto un maestro sconosciuto che si rivelò molto gentile e simpatico. Ci lasciò giocare parecchio, poi ci corresse i compiti e quando fu il mio turno mi prese in braccio e lesse il mio pensierino, ma, giunto ad un certo punto, si mise a ridacchiare sotto ai baffi perché io avevo scritto “caca” invece di casa. Però poi, dopo la correzione, mi premiò con un bel 10! Solo dopo anni ho saputo che era Edmondo Tognarelli, gestore anche di un negozio di abbigliamento sotto Piazza a Barga, di cui eravamo clienti.
Una bambina che frequentava la mia classe, percorreva la mia stessa strada per andare a scuola e , durante il viaggio di ritorno, mi chiedeva sempre di farle il compito: io o mi rifiutavo o glielo facevo velocemente perché la mamma dalla finestra ci urlava di andare a pranzo.
Negli ultimi giorni delle vacanze natalizie, poi, lei diventava la mia ossessione perché si presentava a casa mia con tutto il compito da svolgere! E io che lo avevo finito da giorni per poi riposarmi, mi arrabbiavo molto… poi mi prendeva per sfinimento e, pur di liberarmi di lei l’aiutavo. Nella vita poi siamo diventate amiche e spesso ridiamo ripensando alla scuola di Catagnana., alle giornate passate a giocare fino a tardi, a quando sua madre, dall’alto di Colle a Pialla, le gridava di tornare a casa perché stava arrivando la notte. A volte la povera donna veniva a “convincere” la figlia con in mano una vettina di salice ed allora erano dolori… Per due o tre giorni non si vedeva, poi ricominciava tutto come prima…
Nel 1969 dovevo frequentare la classe quinta ma a Catagnana non c’era, così io e i miei coetanei andammo a Barga che aveva ancora le classi maschili e femminili. La maestra, la signorina Sofia Casci, una vecchia conoscenza dei miei nonni materni ed insegnante esperta mi faceva sentire importante anche se ero figlia di un taglialegna. Io ero molto brava a scuola, tanto che lei mi elogiava davanti a tutte le compagne. Loro, indispettite, un giorno scrissero un biglietto: “La Bruna è la cocchina della maestra.” Gli autori rimasero ignoti, ma le prese di giro, dopo il sermone dell’insegnante finirono.
Un venerdì la maestra mi prese in disparte e mi chiese se mio padre era capace di arrampicarsi sugli alberi, visto che li tagliava, perché il suo gatto, la sera prima, inseguito da un cane, si era rifugiato sulla quercia del giardino e non era più riuscito a scendere: miagolava, tentava e tornava indietro, così aveva fatto tutta la notte. Il sabato mattina io e i miei genitori andammo al mercato a Barga e ci recammo anche a casa della maestra. Con la scala il babbo si arrampicò fino ad un certo punto, poi continuò passando da un ramo ad un altro, acchiappò il micio che non fece alcuna resistenza e tornò giù velocemente. La maestra voleva per forza ricompensare mio padre ed alla fine lui dovette accettare almeno un pacco di zucchero.
Un’altra mattina la maestra ci spiegò l’impresa di Garibaldi, io ne rimasi affascinata e quando chiamai sottovoce la mia amica Roberta, che sedeva abbastanza lontana da me, dissi: “Roberta, Roberta, Garibaldi” Anche la maestra, che avrebbe voluto rimproverarmi, si mise a ridere.
Un sabato mattina tutta Barga era in festa perché il pugile Mazzinghi sarebbe venuto a sposarsi nella nostra città, visto che la futura consorte era di qui. Il giorno fissato per il matrimonio era un giorno di scuola per noi, ma a forza d’insistere la maestra ci promise che dopo la ricreazione ci avrebbe accompagnato alla chiesa del Sacro Cuore, per assistere alla cerimonia.
Io non capivo molto l’interesse per quest’uomo che non conoscevo e che per me praticava uno sport troppo violento, ma alcune delle mie amiche avrebbero fatto carte false pur di non rimanere in classe.
Per loro il tempo non passava proprio quella mattina ed ogni tanto controllavano l’ora, ma la ricreazione non arrivava mai! Allora le più furbe pensarono di sincronizzare tutti gli orologi un’ora avanti… forse la maestra non se ne sarebbe accorta, visto che non portava l’orologio al braccio!
Così, verso le 9,30 una delle ragazze più sveglie, le fece notare che erano ormai le 10,30 e bisognava sbrigarsi a far merenda!
Tutti cominciarono a mangiare, ma sul più bello entrò una collega a guastare la festa.
“Perché mangiate già alle 9,30, andate giù prima?” La maestra inventò una scusa, ma quando la collega fu uscita si arrabbiò tanto, che volle vedere i nostri orologi uno per uno e li riaggiustò tutti.
Quando arrivò al mio sottolineò: “Ti sei lasciata abbindolare anche tu ? Non me l’aspettavo!” poi rischiammo proprio di non uscire e quando lo facemmo era così tardi che erano già pieni di persone sia la chiesa che il piazzale.
Io personalmente, incastrata tra persone più alte, non vidi nulla, poco anche le mie compagne e il lunedì successivo tutti in punizione!!!.
La nostra classe era tutta femminile ed era l’unica di tutta la città, quindi comprendeva alunne di ogni ceto sociale ed anche di ogni tipo di personalità, ma di solito le più ricche erano pure le più smorfiose e ce ne erano tre o quattro che non sopportavo perché mi squadravano sempre dalla testa ai piedi per vedere come ero vestita e poi commentavano sottovoce… Forse mi odiavano anche un po’ perché la maestra aveva un debole per me. Una figlia di papà della Barga bene era un po’ la leader della classe e tutte le altre le andavano dietro e coprivano le sue birichinate.
Il padre era ricco ma molto avaro e lei era sempre in cerca di monete, così una mattina portò a scuola alcuni block note e cercò di venderli. Alcuni attiravano davvero l’attenzione e lei cominciò la vendita sottobanco mentre la maestra spiegava.
A ricreazione mi avvicinai anch’io e riuscì a convincermi ed a darle parte dei soldi che i nonni mi avevano dato come paghetta mensile. Io ero entusiasta dell’acquisto, la mia mamma lo fu un po’ meno perché quei soldi dovevano servirmi per la merenda almeno di quella settimana e mi sgridò dicendo che se nei giorni seguenti non riuscivo a comprarmi la focaccia era peggio per me!
Ancora una volta intervennero i nonni che colmarono il “debito”, raccomandandosi di non lasciarmi raggirare un’altra volta.
Io mi guardai bene dal ripetere lo sbaglio, ma anche la ragazza interruppe la vendita, forse perché qualche genitore avvertì l’insegnante…
La maestra, alla fine dell’anno scolastico, ci accompagnò a visitare la scuola media, in Canteo. Prima di partire ci raccomandò che dovevamo comportarci bene, perché saremmo stati in tanti e saremmo entrati pochi alla volta. Non ricordo molto di quel che vidi alle medie, ma non dimenticherò mai quel che successe dopo.
Mentre aspettavamo fuori che i nostri compagni uscissero, io e il mio gruppo giocavamo nel giardino, correndo qua e là come cavallette e la maestra ci controllava, ma ci lasciava anche un po’ fare, perché non c’erano grossi pericoli. Ma si sa che i ragazzi “una ne fanno e cento ne inventano”: correndo alcune bambine in una direzione e altre in quella contraria, anche se c’era tanto spazio, finì che una compagna e io riuscimmo a sbattere il viso insieme e i miei due denti storti davanti lasciarono il segno sulla sua fronte…
Non sarebbe stato nulla se non fosse cominciato ad uscire tanto sangue ma così dovemmo per forza correre dalla maestra che, sbigottita, lasciò le altre ragazze ad una collega e ci accompagnò dalle collaboratrici della scuola media, borbottando. Loro misero un cerotto sulla fronte della ferita e controllarono i miei denti che risultarono intatti.
Quando tutto fu finito, prima di tornare giù alla nostra scuola, l’insegnante ci fece una ramanzina coi fiocchi: a me disse poco, perché ero un’alunna molto calma e capì che era stato un tragico incidente , ma mi guardò male per diversi giorni, perché da me non se lo aspettava… Spiegò l’accaduto anche ai nostri genitori con un breve messaggio sul quaderno!
Per arrivare tutte le mattine in orario a scuola a Barga non esistevano i pulmini come ora, allora i nostri genitori decisero che ci avrebbero trasportati a turno all’andata e al ritorno dovevamo aspettare, davanti all’agraria, il fidanzato della sorella maggiore di una compagna, che usciva dal lavoro e veniva a pranzo a casa, al Ponte di Catagnana.
Se però ritardava, noi dovevamo avviarci per la strada ed eventualmente arrivare a casa a piedi. A quel tempo, infatti, non c’erano i telefonini e l’orologio non lo avevamo.
Una mattina uscimmo come sempre alle 12,40 e ci mettemmo ad aspettare… Il tempo passava ma noi , ridendo e scherzando, non ci accorgemmo che avevamo fatto tardi. Ad un certo punto decidemmo d’incamminarci a piedi ma, passando dal Natalone, gli abitanti ci chiesero perché eravamo ancora lì a quell’ora e lo stesso fecero alla Vignola e al Ponte. I nostri genitori ci vennero incontro ma erano troppo spaventati per essere arrabbiati con noi…

Dopo l’esame di quinta i miei genitori mi regalarono la prima bicicletta; non era bella e moderna come la Graziella della mia amica, ma io ero contenta anche se era usata. Mio padre la comprò dal Verzani a Fornaci e la pagò 7500 Lire. Io non sapevo ancora andare in bicicletta, ma con l’aiuto di due amici imparai in due o tre giorni.
Ricordo che mio padre, quando arrivava a casa la sera, voleva vedere i progressi fatti che erano tanti… come i voli per terra…
Ai Domenichetti solo l’aia davanti la porta di casa era in cemento e quindi dura ma liscia, dappertutto c’erano erba e ghiaia … Quante sbucciature ai gomiti e alle ginocchia!
Finché cadevo nel sentiero erboso vicino a casa non mi facevo male, ma quando portai la bicicletta sulla ghiaia della strada rotabile cominciarono le cadute più rovinose! Un giorno finii in una scarpata dietro le case popolari e mi salvai da un volo di parecchi metri perché una vecchia pertica che reggeva il filo dei panni si spezzò solo in parte e mi tenne.
La bicicletta doveva servire anche per andare alle medie l’ottobre successivo e quindi ci allenavamo sulla strada asfaltata dal Ponte fino a Barga, quando i nostri genitori andavano a fare la spesa.
Ricordo che tenevamo la bici in uno scantinato dei Moscardini, al Ponte, e quando arrivavamo al Capriolo , la lasciavamo in un giardino di una signora per riprenderla all’uscita.
Il freddo e il maltempo però ben presto ci fecero desistere e cominciammo a salire sul pullman di linea; bisognava però alzarsi prima perché arrivava su a Sommocolonia alle 7, 30 e poi riscendeva al Ponte per andare ad Albiano ed infine tornare a Barga .
Quante corse di mattinata per riuscire ad arrivare in tempo alla fermata sotto Sommocolonia! E se non ci fossi riuscita sarei scesa a salti giù per la scorciatoia del sentiero che dai Domenichetti portava al Ponte.
Quando il pullman scendeva dal paese verso Albiano avrebbe dovuto lasciare passeggeri e studenti al Ponte e ricaricarli all’indietro, ma, specialmente se era particolarmente freddo, l’autista ci permetteva di rimanere a bordo e noi in cambio lo aiutavamo a fare i biglietti. Gli autisti, sempre gli stessi, si alternavano , una settimana Marco e l’altra Emiliano: erano giovani e simpatici, così il viaggio era sempre divertente!

Quando arrivai in prima media e spiegai chi era mio fratello, alcuni professori si ricordarono subito di quel caschetto biondo e ossigenato, un po’ capellone e ribelle, ma intelligente. E così, in particolare uno degli insegnanti, il professor Giuliani, forse si fece di me un’idea sbagliata: nei primi giorni di scuola, infatti, cominciò subito a spiegare argomenti di geometria per me nuovi e poi ad interrogare.
Io fui una delle prime, insieme ad una compagna che non ricordo e quando mi chiese che cos’era un angolo non seppi rispondere perché questa definizione nel libro non c’era; quando poi mi domandò come si chiama il punto – origine delle due rette dell’angolo, io cominciai a piagnucolare anche perché, nel frattempo, dalla rabbia mi ero rotta l’unghia del mignolo destro che stava sanguinando
Il professore chiamò le collaboratrici e mi affidò a loro…
Dopo una quindicina di giorni facemmo il compito in classe ed io fui una delle prime a finire e consegnare, con grande stupore del Giuliani che mi disse: “Guarda , guarda, la Guidi ….non me lo aspettavo!”
Scoprii poi che alla prima interrogazione orale avevo preso cinque, ma poi avevo rimediato nelle successive e quindi sulla pagella mi ritrovai sette all’orale e sette allo scritto, voti alti per questo professore, che però era giusto e abbastanza comprensivo. E’ da lui che ho imparato ad amare la matematica e a risolvere rapidamente tanti tipi di problemi. Non sono però mai riuscita a sapere dov’era scritta la definizione di angolo, ho ripreso più volte in mano il libro di geometria ma lì non c’è… l’avrà dettata un giorno in cui ero assente? Non lo so , comunque saprò sempre che “Un angolo è una parte di piano limitata da due semirette aventi la stessa origine che si chiama vertice”. Questa definizione l’ho insegnata anche a mia figlia…



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