San Biagio

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C’è stato un tempo in cui la religione permeava così profondamente la vita di ogni giorno che le sue ricorrenze spiccavano nel calendario come autentiche pietre miliari che segnavano il lento cammino dell’anno.
Tutti conoscevano non solo le date delle festività maggiori e del patrono del proprio paese, ma anche quelle dei patroni dei paesi vicini e dei santi più venerati.
Frasi come «Ci si vede per Santa Lucia!» oppure «Venite per S. Pietro e Paolo?» riecheggiavano normalmente nelle vie come parti integranti di un tessuto etnolinguistico che accomunava tutti e che tutti comprendevano.
Forse contaminata da preesistenti culti pagani, la fantasia popolare aveva assegnato a certi santi, ispirandosi alla loro storia, il ruolo di proteggere e salvaguardare, oltre che le attività vitali per la sopravvivenza come la semina o il raccolto, anche i più importanti organi del corpo umano.
Ripenso a con quanto amore lo Zio Vittorio mi insegnò la preghiera nella quale venivano invocati i protettori di occhi, denti, orecchie e così via…
In un’Italia più ingenua e devota, la gente affollava le chiese per invocare anche San Biagio affinché la proteggesse da ogni malattia della gola, malanno che in inverno era piuttosto frequente.
Ci si alzava presto per San Biagio perché, a meno che fosse domenica, bisognava andare dal prete per farci benedire la gola prima di andare al lavoro o a scuola.
Intirizzito dal freddo e con gli occhi ancora pieni di sonno venivo accolto da quell’atmosfera di candidi marmi, tremule fiammelle e odore d’incenso che ero stato abituato a identificare con la sacralità.
Dolcemente sospinto dalla mano della mamma mi aggiungo alla lunga fila dei fedeli che avanza piano raccolta in un devoto silenzio del quale, purtroppo, si è perso traccia.
Finalmente le mie ginocchia nude incontrano il freddo dello scalino di marmo e mi appoggio alla bianca balaustra che divide l’area dei fedeli da quella riservata al celebrante.
Con lo sguardo fisso sull’altar maggiore istoriato di marmo cipollino aspetto trepidante il mio turno, deglutendo nervosamente.
«Ecco, tocca a me!…»
Solennemente don Ferretti bisbiglia qualche arcana parola in latino che mi mette soggezione, incrocia i ceri benedetti sulla mia gola, e poi li stringe facendomi uscire uno strozzato “Amen!” e, infine, mi congeda con quello che per lui è uno scherzoso schiaffetto.
In un attimo siamo tutti fuori dalla chiesa e prima di sparire nella nebbia ognuno verso la propria destinazione ci salutiamo con buffe nuvolette di vapore che ci escono dalla bocca e si dissolvono nel freddo.
Dopo una buona mezz’ora un caldo rossore alla guancia mi fa ancora compagnia perché, decisamente, don Ferretti non era uno dalla mano leggera!

Commenti

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  1. Bravo e Complimenti Daniele
    hai saputo scrivere perfettamente uno dei momenti più belli e più attesi che, mi hanno ricordato la mia gioventù
    Anche perché dopo ci attendevano meravigliose ” chiacchiere ” preparate da mia nonna Assunta.
    Con cordialità Ivano Carlesi

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