Un matrimonio deviato

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La battaglia infuriava da diversi giorni, ma  le forze dell’Asse tenevano le linee  nonostante che fossero fronteggiate da un esercito britannico più numeroso e meglio armato. Ciò avveniva dal 23 ottobre 1942, ad oltre due  anni dall’inizio delle ostilità in Africa, ed il luogo dello svolgimento della sanguinosa tenzone era in Egitto, esattamente ad El Alamein: dall’esito di questi tremendi e violentissimi combattimenti dipendeva la vittoria, o la sconfitta, nel continente nero, degli italo-tedeschi o degli anglo-americani (quest’ultimi, gli statunitensi, sbarcarono in Marocco e Algeria, dall’8 novembre ’42, onde  attaccare le nostre posizioni dal lato occidentale della Libia).

Un reparto di truppe italiane, composto da giovani fascisti, era detto “I leoni del Duce”; e fra questi vi erano due coetanei, quasi ventenni e cugini fra loro da parte dei loro padri, provenienti da Arezzo: Pietro, l’uno, e Giovanni, l’altro. Quel giorno i due, con tanti altri, erano impiegati ad una batteria di mitragliere antiaeree mentre le voci degli ufficiali, che urlando impartivano gli ordini ai soldati, si confondevano con il fragore degli scoppi delle opposte artiglierie, comprese quelle dei carri armati, dell’assordante rumore degli apparecchi,  delle mitraglie degli aerei e di quelle di terra…

 “Attenti – gridava uno -, vi piombano da dietro degli aerei”.

 “Attenti – urlava un altro -; ma quelli sono nostri caccia!”.

E i morti, i feriti, che aumentavano di numero, gli apparecchi che precipitavano schiantandosi al suolo: era un inferno! Ma nonostante la strenua, eroica resistenza delle nostre truppe, gli inglesi prevalsero il 4 novembre ed iniziarono l’avanzata in Libia che doveva concludersi in territorio tunisino il 13 maggio dell’anno seguente con la sconfitta delle truppe dell’Asse, compresse dagli inglesi da oriente e dagli americani da occidente, che determinò l’abbandono definitivo del suolo africano da parte nostra.

Un giorno, durante i mesi della ritirata, in un accampamento di fortuna, a Pietro cadde per terra una bomba a mano che esplodendo lo ferì agli arti inferiori, ma in modo non grave. Fu ricoverato in ospedale a Bengasi, dove ebbe le prime cure. Giovanni, appena poté, andò a fargli visita: i due amici si abbracciarono e, dopo che ebbero parlato dell’incidente capitato a Pietro e della di lui guarigione, che si prospettava rapida, presero a conversare:

 “Non so se i miei di famiglia saranno stati informati del fatto accadutomi – fece il ferito -, comunque gli scriverò oggi stesso, per rassicurarli del mio stato, e  naturalmente scriverò anche a Anna”, concluse.

Già: Anna, ragazza piacente, ben formosa, piena di vita, era la sua fidanzata da circa due anni. Pietro viveva con i genitori e  la sorella: il padre, Gino, fascista convinto (aveva partecipato alla ‘marcia su Roma’), trasmise questa sua convinzione politica ai figli, che l’abbracciarono con enfasi.. Era un serio e onesto artigiano, imbianchino-decoratore, gran lavoratore, ed il figlio già aveva iniziato a lavorare con lui; senonché la guerra aveva interrotto la sua attività lavorativa, e non solo.

“Sai bene, Giovanni –  riprese Pietro – che Anna ed io ci dovevamo sposare proprio di questi tempi, a Roma, inseriti in un matrimonio collettivo di tante e tante coppie nel  periodo della commemorazione del primo ventennio fascista, con celebrazioni che dovevano stupire il mondo per la loro grandiosità, nella capitale, con l’inaugurazione dell’EUR (Esposizione Universale Romana)”.

 “Sì, so di tutto questo – gli rispose Giovanni -, ma la guerra, che si diceva fosse rapidissima, ‘lampo’, ha preso ora una piega che prospetta tempi lontani per la sua soluzione, e noi qui in Libia tocchiamo con mano questa triste realtà – e aggiunse -: ma dobbiamo intensificare il nostro impegno, di cittadini e di militari, per raggiungere quanto prima la vittoria finale”.

Pietro condivise il dire del cugino, anch’esso di famiglia fascista: da notare che essi, ed anche Anna, abitavano nel quartiere di Colcitrone, ad Arezzo, e questo li teneva ancor più ‘vicini’. A questo punto i due giovani parlarono a lungo della loro città, della ‘Giostra del Saracino’, tanto agonisticamente intensa fra i vari rioni cittadini. E poi parlarono di Anna, di un anno più giovane di loro, con la quale fin dalla prima infanzia avevano avuto amicizia, che in seguito si era trasformata in incipiente sentimento amoroso, finché infine la ragazza corrispose al corteggiamento di Pietro, fidanzandocisi, ma rimanendo in rapporti di buona amicizia con Giovanni il quale, rispettando la decisione della ragazza, si fece da parte. E mai si era fidanzato con alcuna altra giovane.

Pietro, ormai ristabilito, ottenne una licenza speciale e corse alla sua città, riabbracciando i suoi cari e, soprattutto, l’amata Anna:

“Questa guerra  dovrà pur finire – le diceva -, e noi allora ci sposeremo subito!”.

 “Speriamo presto… prestissimo”, rispondeva lei…

Ma, qualche mese dopo, ecco la caduta del fascismo (25 luglio ’43) e, trascorse poche settimane, l’armistizio (8 settembre), con il conseguente sfacelo dell’esercito, mentre i tedeschi occupavano l’Italia. Nacque la Repubblica Sociale Italiana, sostenuta dai germanici, e ne fu costituito un nuovo esercito. I nostri due giovani aderirono immediatamente al nuovo stato, arruolandosi nelle forze armate repubblicane. Ambedue ebbero modo di trascorrere qualche giorno ad Arezzo, durante i quali spesso discutevano con chi li esortava ad unirsi ai nascenti partigiani o almeno ad imboscarsi:

 “State difendendo una causa persa: la Germania non ha alcuna possibilità di vincere questa guerra, ed anche voi subirete una tremenda sconfitta!”.

E loro: “Comunque sia, il nostro onore ci obbliga a mantenere gli impegni presi, a non rinnegare ciò in cui abbiamo creduto, ciò in cui crediamo, per il bene della Nazione, per la giustizia, per il progresso sociale”.

Uno zio di Pietro, fratello di sua madre, cercò in tutti i modi di convincere il nipote a desistere :

 “…E la storia futura giudicherà pessimamente la cocciutaggine del fascismo di trascinare l’Italia in un campo di battaglia: arrendiamoci, ché solo così si salva la Nazione!”.

Giunse il giorno della partenza dei nostri due giovani verso la destinazione nel nord Italia: con i loro cari fu un commiato triste e pieno di incognite; in particolare l’abbraccio fra Pietro e Anna si protrasse a lungo, mentre le lacrime di lei, e poi anche quelle di lui, bagnavano i loro volti.

Dopo un periodo di addestramento, i nostri giovani furono destinati al medesimo reparto militare che operava azioni belliche, presidi di territori, ed anche veniva impiegato in combattimenti contro i partigiani: praticamente era una guerra fratricida fatta di insidie, di imboscate; e via, via cresceva il numero dei caduti e dei feriti. Si giunse così al primo aprile 1945, che era la domenica della Santa Pasqua. Quel giorno i soldati repubblicani presero parte alla Santa Messa officiata dal cappellano militare, ma erano tristi, sconsolati, perché le notizie belliche volgevano al peggio: addirittura i Russi da est e gli Alleati da ovest, erano entrati in Germania: la fine era vicina. E le parole del sacerdote, di pace, di serenità, acuivano i loro desolati pensieri: con la sconfitta, che sarebbe stato di loro? Anche Pietro e Giovanni si esternarono dette preoccupazioni, ed infine Pietro si rivolse al cugino, seriamente confidandosi:

 “Giovanni, non so se ritorneremo nella nostra città, nelle nostre case; ma se io non  dovessi tornare e  tu sì – e qui il giovane si fece quasi implorante -: Anna…non deve rimaner sola…so che ti piace, che c’eri innamorato…Sposala tu!!! – concluse con veemenza.

Giovanni non proferì parola, indi i due ragazzi si guardarono fissi negli occhi, si strinsero le mani, si abbracciarono, si lasciarono.

Nei giorni seguenti l’unità militare cui appartenevano fu divisa in due parti: una di queste rimase in loco mentre la seconda, comprendente Giovanni, fu trasferita in altra caserma. In questa, come pure anche nelle altre gli ordini dal quartiere generale arrivavano confusi e contraddittori e, nella loro esecuzione regnava il caos: ormai la situazione era allo sfacelo, finché il 25 aprile la R S I  si arrese: la guerra, in Italia, era finita!!!

I militari, abbandonati a se stessi, decidevano singolarmente il da farsi, pur valutando con i commilitoni la situazione:

“I partigiani ci hanno proposto di arrenderci subito a loro, italiani con italiani: ci sarà da fidarsi?”.  

“No – intervenne subito un altro -, perché quelli di loro più estremisti, che adesso vanno per la maggiore, ce la farebbero pagare cara la nostra scelta di aver aderito alla RSI!”.

 “E allora – fecero altri -, aspettiamo gli Alleati e ci arrendiamo a  loro”.

 “Ben detto”, condivise qualcuno; ma ecco che un altro prese la parola:

 “Errore! Gli Alleati hanno da tempo in attività un campo di concentramento a Coltano, in quel di Pisa, dove i nostri camerati d’arme che loro hanno catturato sono lì detenuti, trattati malissimo: se ci arrendiamo a loro toccherebbe questa brutta sorte pure a noi; e chissà quando chi è lì prigioniero riacquisterà la giusta libertà!”.

Poi, visto che il suo dire aveva l’approvazione dei più, rincarò la dose:

 “Consideriamo come gli Alleati considerino noi, che militiamo in esercito regolare, nazionale, come irregolari, banditi;  mentre i partigiani, organizzatosi si può dire spontaneamente, sotto però la spinta dei comunisti, e formati da bande autonome, pur collegate fra loro, ebbene questi sono considerati un vero esercito che rappresenta la nazione! Queste sono le valutazioni degli Alleati che hanno vinto la guerra, e ciò  dimostra  come sia giusta la vecchia massima che dice: ‘La storia la fanno i vincitori!”, descrivendo  le loro ragioni, e i torti degli sconfitti.”

A questo punto Giovanni disse, con convinzione: “Personalmente ritengo che sia meglio partire, ognuno verso le proprie città: io sono di Arezzo e ho deciso di mettermi in cammino da questa sera…”.

“Anche noi!”, risposero in tanti.

E così, quasi tutti partirono, a piedi, su strade fuori mano, in piccoli gruppetti, o singolarmente, per non essere notati, sperando di non imbattersi nei partigiani. Giovanni dopo un paio di giorni rimase solo e, sfinito dalla stanchezza e dalla fame, non sapendo che fare, bussò ad una canonica di un paese, ed il parroco lo accolse, lo rifocillò, lo fece pernottare nella camera degli ospiti e gli procurò qualche modesto vestiario, da civile, naturalmente! Indi riprese il cammino, procedendo lungo la ferrovia, finché  in una stazione trovò un treno merci diretto a Firenze, già carico di persone: ci salì pure lui; e poi, da Firenze, sul cassone di un autocarro, anche qui con tante altre persone, verso la sua città. Giunse ad Arezzo che era sera, ringraziò l’autista del camion e, come vivesse un sogno, corse verso casa sua. L’abbraccio con i genitori, pazzi di gioia per il figlio ritornato; poi le prime, febbrili notizie generali…

 “E Pietro?” gli chiese la mamma.

 “Non ne so nulla – le rispose -, da tempo ero acquartierato in un’ altra caserma”.

 “Comunque –  riprese la donna -, bisogna informare subito Anna di questo evento, anche se a quest’ora sarà già a letto”.

I tre si recarono alla vicina abitazione della ragazza, la quale partecipò alla gioia del ritorno di Giovanni con tutto il cuore, ma trepidante per la mancanza di notizie riguardo al suo amato Pietro.

  “Ma proprio non sai nulla di lui, della sua unità cui apparteneva?”.

  “No, mi dispiace, Anna…Ma certamente entro pochi giorni ritornerà anche lui!”.

Ma i giorni passavano senza alcuna notizia in merito finché un giorno, un brutto giorno, il padre di Pietro fu convocato al Comune di Arezzo, dove gli fu comunicato che suo figlio era deceduto di morte violenta, in un dato comune dell’Emilia, e lì sepolto. Notizia tremenda: l’indomani Gino, con Giovanni e Anna, partirono per quella località,. Al municipio, laconicamente, sbrigativamente, fu detto loro che Pietro, transitando nel loro territorio, aveva avuto uno scontro a fuoco con dei partigiani, perdendo la vita. Poco dopo Gino, sconvolto, al cimitero chiese al custode l’ubicazione della sepoltura di suo figlio, ed anche:

“La prego: se sa qualcosa riguardo alla sua morte, me lo dica…”.

Al che questi gli rispose:

 “So solo che i partigiani della zona, certamente quelli più accaniti, più violenti, avevano fatto dei posti di blocco onde intercettare i militari dell’esercito fascista, che qui transitavano diretti alle loro città; e certo non per dir loro ‘Bravi ragazzi’, specie a quelli che indossavano la camicia nera…”.

Qui il custode tacque, mentre Gino si sfogava:

“Assassini! Hanno ammazzato mio figlio, come già tanti altri, a guerra terminata da giorni e giorni, contro persone ormai impotenti e disarmate! Ma un giorno tutto ciò verrà alla luce, e la storia farà giustizia!”.

Poi dette in lacrime e singhiozzi, mentre Anna sistemava un mazzo di fiori appoggiato alla croce di legno sulla sepoltura di Pietro. Quando la ragazza si rialzò Giovanni, memore della richiesta che Pietro gli aveva fatto, le prese dolcemente le mani guardandola negli occhi con intenso sguardo amoroso, al che lei non rifiutò l’attenzione del giovane; poi i tre recitarono una preghiera per il defunto.

In seguito Giovanni, con discrezione, frequentava Anna e fra i due si sviluppava un sentimento amoroso: si sarebbero sposati presto. Però Giovanni evitava di rincasare da solo, di sera, perché i fascisti rischiavano di essere picchiati; ed infatti un suo parente, anch’egli veterano dell’esercito di Salò, era stato aggredito nottetempo e malmenato selvaggiamente, tanto che rimase invalido ad un braccio.

“E pensare –  gli disse a Giovanni –, che i miei assalitori, fino ad un paio di anni fa, erano fascisti convinti, miei camerati!”.

Le nozze fra i due giovani avvennero in forma semplice, senza pompa; poi i due novelli sposi partirono per un breve viaggio di nozze, durante il quale non mancarono di far visita alla tomba di Pietro. Lì pregarono, meditarono, baciarono la lapide commossi, ben sapendo come Pietro aveva desiderato il loro matrimonio, deviato da quello che doveva essere il suo, causa la di lui morte.

L’anno seguente ecco che la coppia venne allietata dalla nascita di una bella bambina, a cui fu posto il nome Piera. Le visite al sepolcro di Pietro, da parte dei suoi familiari, si ripetevano si può dire ad ogni anno, finché dopo circa dieci anni dalla sua morte, quando cioè i suoi resti potevano essere esumati, le sue ossa furono traslate ad Arezzo. Quel giorno  i funerali furono celebrati in modo solenne, con manifesti, con Santa Messa, con trasporto dalla chiesa al camposanto, con tanta partecipazione di persone, anche con parenti giunti da Livorno. I tempi erano cambiati, e c’era chi diceva:

 “Era un bravo ragazzo, era un sincero idealista: finalmente, dopo dieci anni, ha terminato il cammino verso la sua, la nostra città, dove riposerà per sempre!”.

 

(Pietro, lo sfortunato protagonista del racconto, basato sulla sua vita,  era mio cugino,  figlio della sorella di mio padre N.d.A.)

Commenti

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  1. Gian Gabriele Benedetti


    Racconto ampio e ben articolato, che ci guida all’interno di vicende drammaticamente vissute, quasi autobiograficamente. Ci riporta momenti intensi di storia, con gran quantità di precisi riferimenti. Nella narrazione si sottolinea le fede di due giovani, che, nonostante si trovassero dalla parte sbagliata, non sono venuti mai meno ai loro principi. Quanto proposto, costruito su avvenimenti realmente accaduti, riesce a testimoniare la bontà, la generosità, la voglia di vivere e il desiderio d’amore, che riescono a scaturire, pur in un periodo contraddittorio, difficilissimo, terribile che si stava subendo. Così possiamo affermare che anche nel male e nel disastro di una guerra (anche fratricida) possano emergere lati positivi e sentimenti degni di tal nome.
    Il tutto ci fa riflettere non poco.
    Gian Gabriele Benedetti

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