Il destino ineluttabile di Pascoli nel libro di Antonio Corsi

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A cura della Fondazione Pascoli e con il supporto del comune di Barga giovedì 14 dicembre, nella sala consiliare del Palazzo Pancrazi del Comune di Barga (ore 17) verrà presentato il libro di Antonio Corsi “Pascoli ed il Risorgimento. Il vate, l’educatore” edito da Maria Pacini Fazzi.

Interverranno  insieme a Corsi, il Prof. Giovanni Falaschi dell’Università di Perugia, il Prof. Umberto Sereni dell’Università di Udine. Il libro, ieri mattina, è stato anche donato al ministro Dario Franceschini durante la sua visita a Casa Pascoli. 

Il prof. Corsi è un amico di questo giornale fin dalla sua nascita nel 1949. Lo ha sempre sostenuto e ne è sempre stato un collaboratore oltre che un amico della famiglia Sereni prima, ma anche dell’attuale direttore Galeotti. Parlare della sua opera per noi è un piacere. Per questo, in occasione della imminente presentazione, cogliamo l’occasione per presentare come si deve questo volume. Lo facciamo con la prefazione del libro scritta da Umberto Sereni che ringraziamo per averci messo a disposizione il testo.

 

UN DESTINO INELUTTABILE

di Umberto Sereni

 

Evidentemente è nel destino dei barghigiani, che frequentano la cultura, di misurarsi con Giovanni Pascoli. Questo studio di Antonio Corsi, barghigiano di sicuro lignaggio e di pronunciata vocazione, ce ne dà la conferma. Ed il “caso” di Antonio Corsi viene ad aggiungersi ad altre esperienze che pure si sono svolte autonomamente, ma che hanno fatto registrare l’ineluttabilità dell’incontro con Pascoli.

Per rimanere in ambito familiare ricordo la vicenda di mio padre Bruno, così ricca e singolare: l’emigrazione giovanile in Scozia, il fuoriuscitismo politico alla scuola di Salvemini, la partecipazione alla difesa della Repubblica spagnola, il carcere nell’Italia fascista, e quindi l’impegno per la pacificazione e la ricostruzione di Barga e infine la grande opera educativa di democrazia civica realizzata con il suo Giornale, che univa e affratellava i barghigiani.

In questo viaggio tribolato, svolto nel cupo dramma europeo, è difficile ipotizzare una qualche seria attenzione all’opera di Giovanni Pascoli. Ed è dunque plausibile l’ipotesi che mio padre abbia scoperto il poeta e ne abbia compresi il valore e l’importanza solo quando – e siamo nel 1945-46 – prendeva familiarità con lo spirito bargeo, si immedesimava nella comunità e ne assumeva l’ansia di riscatto e di affermazione.

Animatore di un progetto di rinascita civica, che doveva avvenire lungo le direttrici della democrazia repubblicana, Bruno Sereni accoglieva in questa sua visione il poeta di Castelvecchio e gli assegnava una collocazione di assoluta primazia in quel nuovo Pantheon di glorie cittadine che doveva servire a sostituire gli infranti idoli del passato regime. Recuperare Pascoli significava innanzitutto stabilire un collegamento di memorie condivise con quella luminosa Barga degli anni di inizio Novecento. Il poeta agiva da ponte ideale per legare la nuova Barga della ricostruzione a quella Barga che era stata il luogo di maturazione e di rivelazione di alte esperienze culturali e politiche, al punto da rappresentare un modello di riferimento per l’intera Valle del Serchio.

Percorrendo questa strada il combattente di Spagna, il fuoruscito, si trasformava in “pascoliano” e di questa nuova divisa dava immediate manifestazioni facendo del “Giornale di Barga” uno strumento di mobilitazione per la difesa e la valorizzazione del patrimonio pascoliano. Era significativo che il primo numero del “giornale”, maggio 1949, si aprisse con un intervento in cui lo scrittore Mario Mariani sollecitava la creazione di un Centro di Studi Pascoliani. E recasse in prima pagina un ritratto del poeta realizzato da quel grande artista che fu Adolfo Balduini.

Questo impegno, che nello stile di Bruno non conosceva soste, fu apprezzato da Mariù Pascoli che gli accordò stima e considerazione testimoniate nella lettera con la quale volle accompagnare il suo dono della raccolta di poesie del fratello. Libro e lettera che stavano nella nostra biblioteca nel posto che si riserva ai gioielli della famiglia. Assieme alle lettere di Gaetano Salvemini e di Benedetto Croce che proprio in un biglietto a Bruno volle consegnare gli ultimi pensieri della sua lunga riflessione su Giovanni Pascoli.

Di quella lunga azione condotta da Bruno Sereni gli esiti più interessanti furono l’intervento pubblico per la conservazione di Casa Pascoli, che dopo la morte di Mariù rischiava di andare alla malora, e la messa sotto tutela dell’integrità del paesaggio pascoliano stabilita da un atto governativo sollecitato dal deputato Quirino Baccelli.

Forte di queste credenziali, in occasione del cinquantesimo dalla scomparsa del poeta, Bruno Sereni concentrò le sue energie alla realizzazione di un volume che doveva dare la misura del grande complesso di affetti che la comunità aveva nei confronti del poeta. Nacque così il volume ‘Omaggio di Barga a Giovanni e Mariù Pascoli’, che con l’apporto di quel grande uomo di cultura che fu il professor Corrado Carradini riuscì una delle iniziative più serie del Cinquantenario.

E sulla scia di quel successo, qualche anno dopo, partì la serie degli incontri pascoliani, affidati alla direzione del professor Felice del Beccaro che insieme a Bruno curava la collezione dei “Quaderni” che raccoglievano i testi delle “lezioni” che a settembre, ogni anno, i più accreditati studiosi dell’opera di Pascoli venivano a tenere a Barga.

Alla luce di questa storia, raccontata con i passaggi più significativi, è assai facile immaginare che in casa Sereni tirasse una forte aria pascoliana. Per buttarla giù tranchant: un’aria che alla fine risultava irrespirabile. Almeno per me che, coerente con lo schema del conflitto genitori-figli, tendevo a difendermi sottraendomi all’influenza paterna. Andò così per la politica, tanto che appena uscito dall’adolescenza mi schierai sulla sinistra estrema, che non era certo una collocazione gradita in casa, e ancor meno da mio padre che non aveva mai dimenticato l’inferno di Barcellona 1937, quando gli stalinisti uccisero l’anarchico Camillo Ber- neri che mio padre aveva eletto a una delle sue guide morali.

Andò così anche per Giovanni Pascoli, tanto che quando mi iscrissi all’Università evitavo di esibire i titoli pascoliani che mi venivano dalla mia provenienza barghigiana che tanto interessava i docenti di Italiano. Non lo feci con il professor Varese che pure tra i testi indicati per l’esame aveva un libro dedicato al Pascoli politico; e non lo feci con il professor Baldacci che pure mi gratificò con un 30 e lode. E così per la tesi andai in ben altra direzione e mi occupai delle agitazioni dei contadini nelle campagne di Parma.

Ma non per tanto potevo evitare l’appuntamento con Giovanni Pascoli. Anche per me era ineluttabile ed a Pascoli arrivai tramite Plinio Nomellini, il pittore che aveva stabilito con Pascoli una lunga e intensa collaborazione culminata con la realizzazione delle tavole che illustravano ‘I poemi del Risorgimento’. L’incontro risale al 1990 quando il sindaco Alessandro Adami e il vice sindaco Antonio Da Prato, nel quadro di un potenziamento dell’iniziativa culturale del Comune di Barga, accolsero la proposta, avanzata assieme a Barbara Nomellini ed a Gianfranco Bruno, di tenere una mostra dei quadri del pittore per raccontare il suo rapporto con Giovanni Pascoli. La mostra, ospitata in palazzo Pancrazi con il titolo ‘Nomellini e Pascoli: un pittore e un poeta nel mito di Garibaldi’, incontrò un notevole successo, grazie al fatto che furono presentate opere di grande suggestione e tra queste un grande interesse lo suscitò la serie dei quadri garibaldini, che rivelavano la forte partecipazione, non solo emozionale ma anche ideologica vissuta dal pittore che li aveva concepiti come manifesti della nuova primavera italica. Valutata alla luce degli sviluppi delle ricerche sull’opera di Pascoli quella mostra assume un valore capitale, perché di fatto aprì ad una felice stagione di riconsiderazione critica sulla dimensione del poeta nell’ambito delle esperienze artistiche e degli ambienti culturali a lui coevi. Il mito di Garibaldi che aveva unito poeta e pittore era una componente fondamentale della sensibilità italiana di primo Novecento e questa considerazione obbligava a ripensare al ruolo svolto da Pascoli nella formazione della cultura nazionale negli anni che precedevano il primo conflitto mondiale. Che il tema fosse ricco di prospettive lo dimostrano gli accreditati studi che negli anni più recenti sono venuti a indagare le scottanti problematiche dell’identità nazionale, del processo di formazione dell’ideologia italiana, del più generale nodo del complesso valoriale della comunità. Lo studio che ci propone Antonio Corsi si colloca bene addentro a questo panorama ed affronta la “questione pascoliana”, perché di questo si tratta, avendo ben presenti le novità più stimolanti che l’hanno definita, a cominciare dal saggio fondamentale di Mario Isnenghi che lumeggiava sulle attitudini mitopoietiche di “un vate di campagna”.

Non altrettanto appariscente e rutilante del ‘fratello’ Gabriele, non per niente inimitabile, anche Giovanni Pascoli si è attivato come generatore di miti. Miti che dovevano servire alla formazione degli italiani. Che dovevano educare un popolo fanciullo, che aveva bisogno di un mito che lo rinfrancasse, lo sottraesse all’inedia ed alla disperazione nichilista, lo animasse di energie virtuose. Al cuore della sua operazione mitopoietica sta, come evidenzia Antonio Corsi, il Risorgimento che Pascoli interpreta come il grande patrimonio della virtù e lo mette a disposizione per illuminare il cammino del popolo italiano. Una grande operazione educativa, condotta con il rigore di un disegno meditato e sorvegliato in ogni suo passaggio che Corsi riesce a far emergere perché, per suo conto, si muove con la sensibilità dell’educatore.

Ed eccoci al destino ineluttabile. Non sono certo lontano dal vero se provo a immaginare il giovane Antonio Corsi che quando compie i suoi studi in quel gran laboratorio di cultura e di vita civile che era il convento di via del Parione a Firenze dove era piazzata la Facoltà di Magistero, aveva ben altro per la testa che non fare i conti con Giovanni Pascoli. I suoi maestri di allora, e di sempre, erano il professor Lamberto Borghi, illuminato docente di Pedagogia, ed il suo più sicuro collaboratore il professor Renato Coèn. I testi sui quali Corsi si formava erano i libri di John Dewey e di Jerome Bruner, introdotti in Italia dalla scuola del professor Borghi; ma di quella antica lezione di pedagogia attiva Corsi si è avvalso quando, attratto dall’ineluttabile destino dei barghigiani, si è misurato con l’opera di Giovanni Pascoli.

A questo punto mi piace pensare che la sua antica frequentazione di casa Sereni – eravamo dirimpettai in via del Giardino – quando dava a mio padre l’aiuto nella compilazione del Giornale l’abbia predisposto a questo incontro con il poeta di Castelvecchio, letto, studiato e interpretato nella sua più vera essenza di uomo dell’inquieto Novecento, secolo del quale avverte un futuro di drammatica crudeltà che si impegna ad evitare procurando agli eterni fanciulli un Grande Racconto che li salvi dal gran buio che li minaccia, li conforti dell’immenso dolore che li avvolge, li abiliti a compiere opere buone e virtuose, li faccia agire seguendo i precetti dello zi’ Meo, “l’uomo che godea del poco e non sapea del tanto”.

Precetti del buon vivere che il tempo nostro può finalmente comprendere e riconoscere nella loro verità assoluta. Affollato e perseguitato da miti falsi e bugiardi il tempo nostro si difende agendo da distruttore del mito. Illudendosi di poterne fare a meno, quando invece ha necessità di un mito di rigenerazione e di riconciliazione. Ed il mito, quando è vero, è verità che illumina, che riempie i cuori, che li eleva al cielo. Torniamo al Pascoli che conforta e che consola:

O stanco dolore,

riposa! La nube

del giorno più

nera è quella che

vedo più rosa

nell’ultima sera.

 

Sì, è proprio il caso di dirlo: su di noi barghigiani Pascoli incombe come un destino ineluttabile.

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