Pascoli, elogio della domenica. Un testo perduto

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Un testo perduto. Un discorso che, seppur importante, era stranamente scomparso. Ora è riemerso. Si tratta di una riflessione di Giovanni Pascoli sulla Domenica. Il testo, in cui il poeta difende e elogia le ragioni del riposo settimanale, è stato ritrovato durante le ricerche del libro “Il professore Pascoli a Messina e l’alunno sacerdote” edito da Città del Sole.
Il discorso pascoliano, che era stato inserito nel volume “Pensieri e discorsi” edito da Zanichelli nel 1907, si chiama, non a caso, “Il settimo giorno” e fu pronunciato nell’anno 1900 davanti ai commercianti messinesi. In occasione della ristampa all’interno del volume poi è uscito anche, integralmente sulla pagina culturale del noto quotidiano cattolico Avvenire, il 26 maggio di quest’anno, una domenica. Non a caso.
Il Poeta definisce la “santa” domenica “giorno di silenzio e di tenerezza e di raccoglimento”.
Si rivolge ai “cari” messinesi venuti ad ascoltarlo, figli “di una delle più grandi città d’Italia” che “ha tradizioni, e perciò speranze”, vive di “un commercio molto prospero e utile” e non è da meno “delle altre grandi città d’Italia e degli altri popoli civili del mondo”.
Pascoli apre il suo discorso in modo fosco: “Ci sono due lugubri parole che infelice chi le sente oscillare sospese ai due moti d’un pendolo invisibile: Sempre… mai… Sempre… mai… Sempre… mai… Gli uomini condannano talora l’uomo a udire questi due tocchi che sembrano i palpiti dell’infinito e il ritmo dell’eternità”.
Poi, in questa visione cupa, una luce di speranza: “Dicono questi padri e dottori che nel giorno annuale della Risurrezione, i dannati dell’inferno vero hanno tregua: cessano le torture, la tenebra si dirada, il fuoco si spenge, il gelo si scioglie; e quell’oscillare, quel ripetìo, quel flusso e riflusso di mare di disperazione, non si ode più”. L’inferno cessando per un giorno di essere, allora, “non è più inferno mai!”
Ecco allora l’esortazione del Poeta: “In questo mondo nel quale ora viviamo, affaticato e affannato, suoni il cantico della risurrezione! Si restituisca al lavoro ciò che lo distingue dalla pena; si renda al lavoratore ciò che lo distingue dal forzato e dal dannato; riabbia il popolo umano ciò che gli era già stato dato: la sua domenica!”
Perché come spiega “senz’essa, non c’è settimana”!
In fondo “la vita dell’uomo è una successione di giorni e notti”, giorni “in cui il lavoro dispone il corpo al sonno della notte” e notti “in cui il sonno dispone le membra al lavoro del giorno”. Un alternarsi di giorno e notte eterno finché “giorno e notte si fondano in una sola oscurità e immobilità”: quella della morte.
“Questa società” continua Pascoli, “senz’essa” (cioè la domenica), è “un ergastolo” in cui “se non c’è la solitudine del silenzio, c’è però la solitudine del rumore”. Qui, il Poeta ci regala una cupa e lirica immagine: “ogni uomo è segregato dall’altro dall’assordante fracasso dei magli e delle macchine”.
Senza la domenica “questa umanità” è “un inferno” pieno “di vane implorazioni, di orrende bestemmie, di grida d’angoscia”.
Un ergastolo e un inferno, insomma, “in cui l’anima degli uomini oscilla in delirio sospesa ai due moti convulsi : sempre… mai, sempre… mai”.
Ma ecco che interviene, secondo il Poeta, la Fede che dice di riposare “l’un dì dei sette” perché “anche Dio riposò nel settimo giorno”. Sì, anche Lui che “crea con un fiat”.
Ma non solo la Fede, a supporto della sua tesi Pascoli chiama la Scienza che dice: “abbiate, ogni tanto, magari più spesso che ogni sette giorni, un giorno di requie perfetta, se volete che le forze vi bastino”. Dice, inoltre, la Giustizia che impone agli uomini di non fare dei propri simili peggio di come sono trattati i “giumenti”, che non vengono attaccati “tutti i giorni dell’anno” perché sennò diverrebbero inutili.
Infine, dice l’Umanità che se è vero che “gli uomini hanno il diritto di generare”, abbiano anche la possibilità, “almeno un giorno della settimana”, di stare “coi loro piccini” per “farsi conoscere” e “conoscerli”.
Perché “dove più ferve l’opera enorme degli uomini, dove è più assordante il fracasso delle macchine, più il genere umano sembra diventare una turba regolata di schiavi e una mandra ammaestrata di bruti, là il culto della domenica, religiosamente inviolabilmente osservata, fa di quella schiavitù e di quella brutalità ciò che noi diciamo civiltà”.
Chi, secondo il Poeta, in quel giorno, viaggiando, passi per una città in cui si “osservi il riposo settimanale”, sarà stupito di non sentire “rumore” e vedere “moto” di cui solitamente è piena.
Al visitatore “le porte chiuse delle lunghe file di negozi” daranno “un’idea di lutto”. Sembrerà una città “vedova” come direbbe il Profeta. Ma invece, secondo Pascoli la realtà è diversa: in quella città c’è la Vita. Non è passata la Morte ma l’Amore, la Pietà, “la buona novella dell’umano avvenire”.
Ecco allora che quelle porte chiuse vorranno dire “famiglie, tutte intere, raccolte insieme”, senza quella frenetica fretta della settimana. Le famiglie sono raccolte “intorno a una bianca tovaglia”, mentre i “giovani commessi” con le loro biciclette “solcano le strade campestri” o bisbigliano all’orecchio “della loro amorosa”. La Vita, insomma “risultante sì dal lavoro, ma anche dal riposo” nutrita “non di solo pane, ma anche d’amore e di gioia”. Concetti ancora attuali, validi.

Nazareno Giusti

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