10 Dicembre 1847.
24 Dicembre 2025
Tra il serio e il faceto…
Quarta notizia del TGR 1 delle 8: non si dovrà più urlare il “roboante SI!” al termine della seconda strofa del Canto degli Italiani, meglio conosciuto come Inno Nazionale. Nelle cerimonie militari.
Infatti, la disposizione è stata emessa dallo Stato Maggiore della Difesa, e non attiene al resto del paese… Disposizione peraltro già da sempre attuata nelle caserme: al mattino quando si canta l’Inno Nazionale all’Alzabandiera o in tutte le cerimonie, i militari non lo gridano.
Semplice. Già fatto.
Nel testo ufficiale del Quirinale, non c’è. Nelle cerimonie civili viene gridato alle partite della Nazionale ecc.
È “motivazionale”. Non c’è assolutamente niente di male, né di strano.
Vediamo come mai nasce questa leggera diversità…

Per la prima volta in forma ufficiale il “Canto degli Italiani” viene cantato a Genova, sul piazzale della chiesa della Nostra Signora di Loreto, che proprio il 10 dicembre viene festeggiata. L’occasione era il ricordo del centenario di una rivolta contro gli asburgici. Lo suonò la Filarmonica Sestrese, musicato inizialmente da un tale Alessandro Botti. Precedentemente vi erano state alcune altre presentazioni, ma non ufficiali. Diciamo delle prove.
Il canto degli Italiani ebbe subito un immediato successo, era orecchiabile, musicalmente “accettabile”, ma soprattutto era fortemente repubblicano e giacobino! Piaceva.
Non troppo alla monarchia, che essendo un canto “repubblicano” comprensibilmente lo osteggiò a lungo, preferendogli la Marcia Reale. A Viareggio tanto per chiarire il clima, il 20 settembre 1914 durante una manifestazione ufficiale la banda suonò la Marcia Reale e non l’Inno Nazionale. Un gruppo di intellettuali “rossi” della “Repubblica d’Apua” tra i quali lo scrittore Giuseppe Prezzolini, Enrico Pea, Lorenzo Viani, Moses Levy, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e Giuseppe Ungaretti, non si alzò in piedi e il Sottotenente Vittorio Martini si scagliò contro d loro rimediando una “ciaffata”. Risultato finale come ci racconta il Prof. Umberto Sereni, il Gran Caffè Margherita distrutto dalla rissa furibonda e Ungaretti qualche ora al gabbio.
Torniamo all’Inno.
La nascita del testo viene fatta risalire a Goffredo Mameli dei Mannelli, poeta e patriota italiano, che morirà a soli 21 anni, in seguito ai combattimenti per la difesa della breve Repubblica Romana al fianco di Garibaldi. Mameli venne ferito a morte ad una gamba che andrà poi in cancrena. Poco prima aveva scritto il testo completo del Canto degli Italiani, come inizialmente si chiamava.
Poi diventerà Fratelli d’Italia.
Sulla nascita del testo vi sono diverse versioni, anche contrastanti. Forse lo zampino ce lo aveva messo anche un suo vecchio insegnante, Atanasio Canata, ma di fatto la paternità e il documento di base sono a lui attribuiti.
La musica definitiva fu affidata dal Mameli ad un altro patriota, il compositore Michele Novaro; questi, non appena ricevuto il testo scritto, il 10 novembre del 1847 si pose al clavicembalo e tirò fuori la composizione musicale in tonalità Si Bemolle Maggiore.
Il nostro inno possiede una vera peculiarità: la doppia composizione. A differenza degli altri inni stranieri, che hanno un compositore unico, noi ne abbiamo due; Mameli per il testo, Novaro per la musica! E anche il cantato è a due voci: una voce iniziale singola, detta voce narrante, e il coro degli italiani che rafforza e ripete!
Il Carducci sancì con il suo pensiero la datazione e l’adozione finale
“…fu composto l’8 settembre del 47, all’occasione di un primo moto di Genova per le riforme e la guardia civica; e fu ben presto l’Inno d’Italia, l’inno dell’unione e dell’indipendenza, che risonò per tutte le terre e su tutti i campi di battaglia della penisola nel 1848 e 49….”
Verdi nel 1862 nel suo Inno alle Nazioni, affidò al Canto degli Italiani il compito di rappresentare l’Italia, al pari della Marsigliese per la Francia e del God Save the Queen per il Regno Unito.
Era fatta. Più o meno.
L’Inno ha forti assonanze con la Marsigliese: Mameli era un fervente rivoluzionario giacobino e forte sostenitore dei concetti di Liberté, Égalité, Fraternité contenuti nella Marsigliese; lo stesso versetto “stringiamci a coorte” (la coorte era l’unità base di impiego dell’esercito romano), è decisamente ripresa dalla frase “…formez vos bataillon”. Mameli prese alcuni spunti anche dall’Inno greco.
Numerosi sono i contenuti storici, ma il minimo comun multiplo è l’odio viscerale verso l’Austria dominatrice. Vengono chiamate in causa la Polonia e la Russia, con il “sangue polacco”, per ricordare lo smembramento della Polonia ad opera dell’Austria alleata con la Russia (il cosacco), e le spade vendute, i mercenari.
La strofa ultima del “sangue cosacco e polacco” è aggiunta a penna dallo stesso Mameli, perché rischiava di compromettere i rapporti diplomatici. Ma lui la mise ugualmente.
L’Inno era di fatto un invito a combattere per l’indipendenza nazionale.
Fu cantato già durante le Cinque Giornate di Milano, sancendo la sua adozione con il sangue dei patrioti milanesi, che si batterono contro il Radetzky. Persero la vita più di 400 milanesi.
Già fortemente esplicito dai primi versi, dove Mameli fa risalire la “italianità” addirittura a Roma e Scipione l’Africano.
Poi l’Inno continua… con la frase
“fummo da secoli calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi…
E qui l’attacco al Metternich che definì nel 1847 l’Italia…
un’espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle
…è piuttosto evidente.
Però 70 anni dopo l’Italia, quella “espressione geografica” farà chiedere l’Armistizio all’Austria Ungheria. Che cammino…!
Nel testo c’è anche un preciso riferimento religioso che supporta la lotta all’indipendenza; della serie quando si è alla guerra ci si attacca a tutto… infatti una strofa riporta:
Uniamoci, uniamoci, l’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore. Giuriamo far libero il suolo natio.
Continua ancora con la battaglia di Legnano, contro i tedeschi, e quindi l’attacco diretto all’aquila austriaca, antagonista naturale italiana.
… Già l’Aquila d’Austria le penne ha perdute.
E via così, fino al “Balilla”, …i bimbi d’Italia si chiaman Balilla (…inizialmente la frase era son tutti Balilla)… eroica figura di bambino genovese rivoltoso contro la coalizione austro-piemontese del 1746: poi, successivamente Mussolini adotterà il termine “balilla” sciaguratamente per altri bambini. Un disastro.
E ancora, la “squilla” è la campana che chiama a raccolta il popolo alla rivolta di Palermo del 1282, contro i Francesi di Carlo d’Angiò, nei Vespri siciliani. Manzoni l’aveva presa ben alla larga la faccenda.
Incredibilmente Mazzini non accettò bene il Canto in un primo momento; lo reputava fiacco, troppo moscio, poco marziale.
Chiese quindi al Mameli di farne un altro, musicato questa volta da Verdi. Il titolo era decisamente più…marziale: “Suona la tromba!”, ma una volta provato, neanche questo piacque al “committente” e quindi ritornarono al Canto degli Italiani originale. Eran gente strana già a quel tempo.
Nel frattempo, il testo aveva subito alcuni rimaneggiamenti e adattamenti: ad esempio il titolo iniziale doveva essere “Evviva l’Italia”, sostituito poi da “Fratelli d’Italia”.
E anche il “roboante” SI, oggetto della discussione importante dei nostri giorni…, quello che tutti i civili urlano, specie quando gioca la Nazionale; al termine della strofa …”L’Italia chiamò!”, fu di fatto aggiunto a penna da Novaro al momento della stesura della parte musicale.
Novaro il musicista, aggiunge un “roboante SI!” al testo scritto da Mameli. E sinceramente non ci vedo niente di male.
Infatti nel testo originario di Mameli il “SI” non c’è.
Il “SI” non c’è nemmeno nel testo dell’Inno Nazionale ufficiale, sancito definitivamente solo il 4 dicembre 2017, con una apposita Legge dello Stato, la nr. 181, visibile sul sito del Quirinale.
In nessuna caserma dove si canta regolarmente al mattino, si pronuncia il roboante “SI”: è un appannaggio dei civili quando cantano l’Inno, ma tutto sommato non ci sta male.
Prima del 2017 l’Inno nazionale era di fatto un “Inno provvisorio”; fu adottato come tale nel 1946, in seguito alla caduta della Monarchia; prima era in uso la Marcia Reale. È anche capibile. Poi nel 2017 una legge lo ha sistemato. Ufficialmente!
La parte iniziale della musica, l’introduzione, con le tre squille ripetute, è un invito all’adunata, un richiamo all’attenzione! Improvviso, ma deciso. Poi è un crescendo. Un forte ed emotivo pathos che riassume 2000 anni di storia. Della nostra Storia.
Nel 2002 per i campionati mondiali di calcio la RAI commissionò una versione dell’Inno tipo “gospel”, cantata da Elisa. Ma la versione “gospel” fu ritirata per le forti proteste del Ministro alle Comunicazioni Maurizio Gasparri; questa almeno l’aveva indovinata!
L’Inno Nazionale va ascoltato in piedi, i militari sull’attenti, i civili se vogliono con la mano sul cuore, ma non è sancito… è un po’ una americanata; l’importante è cantarlo a squarciagola.
Tutti insieme.
Non solo alle partite.
Viva l’Italia e Buon Natale



Silvio
24 Dicembre 2025 alle 13:51
Che dire se non fare i complimenti allo storico militare che in maniera puntuale ed esaustiva ci ricorda con dovizie di particolari che “la memoria “ è sacra sotto ogni punto di vista ,va difesa e celebrata ogni qual volta ce ne sia occasione in tutte le sedi ed ogni lingua!
pier giuliano cecchi
24 Dicembre 2025 alle 18:00
Caro Colonnello, molto interessante il racconto cui aggiungo qualcosa che ci riporta alla nostra terra Bargea. Nell’inno c’è anche un richiamo all’ultima repubblica interamente italiana, quella di Firenze che cadde per mano dell’Imperatore Carlo V, era il 1530. La storia racconta che in quell’anno si ebbe un ultimo tentativo di salvare la Repubblica Fiorentina dagli imperiali di Carlo V. Firenze assediata e ridotta allo stremo ebbe l’ultimo difensore nel Commissario Generale Francesco Ferrucci ma nel tentativo di soccorrerla, il 3 agosto 1530, a Gavinana si scontrò con l’esercito di Filiberto Chalons, il principe di Orange, il quale rimase ucciso nella battaglia. A sua volta anche Ferrucci fu ferito a morte e così ridotto portato al cospetto di Maramaldo che vilmente lo finì. Celebri le ultime parole del valoroso condottiero: Vile, tu uccidi un uomo morto!
Parole che al tempo del nostro Risorgimento suonavano come l’ultimo scatto d’orgoglio dell’Italia prima di soggiacere allo straniero e che ispirarono a Goffredo di Mameli un passaggio dell’Inno d’Italia, allora chiamato Il Canto degli Italiani: Dall’Alpe alla Sicilia / Dovunque è Legnano / Ogn’uom di Ferruccio / Ha il core e la mano… cioè, ogni italiano degno di questo nome ha il cuore e la mano del capitano Francesco Ferrucci, strenuo difensore della libertà di Firenze.
Questa storia ci porta anche a Barga e Sommocolonia, all’impresa, anche qui fallita del repubblicano Matteo di Pieruccio Bartoli, alias il Galletto da Barga, che da comandante le repubblicane armi barghigiane, dopo la morte del Ferrucci, passarono al comando del non parente Cosimo Bartoli e così ridursi lo stesso Galletto nel castello che gli era stato affidato in perpetuo, cioè, Sommocolonia. Da Barga e da Pistoia salirono il monte di Sommocolonia le armi imperiali, espugnato il castello, non ebbero la Rocca, dove era il Galletto, che solo con un salvacondotto per tutti i suoi aderenti e figli, la lasciò libera.
Al Galletto e tutti gli altri l’idea repubblicana rimase intatta, certamente anche dopo il 1537, quando a Montemurlo, per mano di Cosimo I, ci sarà la disfatta dei repubblicani fuorusciti da Firenze e allora saranno amare le lacrime del Galletto quando saprà della sorte toccata a suo figlio Capitano Pieruccio o Pierino, che catturato, in piazza della Signoria gli sarà tagliata la testa, assieme a Baccio Valori e altri condottieri. Ogni Barghigiano di buonsenso, ogni volta che arriva a quella piazza, dovrebbe farsi un segno della croce.
In breve: l’Inno d’Italia ci porta anche a rivalutare certe azioni barghigiane.
Pier Giuliano Cecchi