Quando, nel 1986, arrivai a Careggine ed il maestro seppe che ero figlia di un carbonaio, mi fece conoscere subito il fotografo Feliciano Ravera per realizzare diapositive e foto su questo antico mestiere.
Noi insegnanti decidemmo poi di portare tutta la scuola a vedere la carbonaia accesa e fu veramente una bella esperienza, sintetizzata poi in una vera e propria ricerca della classe quarta. Ci divertimmo tanto che l’anno successivo ripetemmo il viaggio a Catagnana per assistere alla produzione di carbonella.
In tutti e due gli anni ci eravamo ben organizzati, aiutati anche dai miei genitori, felicissimi di avere vicini tanti bambini…
Gli alunni portarono il pranzo al sacco e noi adulti consumammo il primo preparato da mia madre e poi tante bistecche alla brace, cotte con il carbone di mio padre!
L’ultimo anno in cui insegnavo a Diecimo riproposi l’esperienza al secondo ciclo, ma la carbonaia fu costruita nel giardino della scuola da un nonno del posto che si dichiarò disponibile, bisognava però trovare la materia prima, cioè la legna.
Carbonaia a Diecimo
Sapendo che la Comunità Montana aveva grosse masse di castagno che stavano marcendo nei boschi della Val di Corsonna, riuscii, anche se con qualche difficoltà, a farmene portare un grosso trattore a Diecimo e cominciò l’avventura!
Il nonno piantò tre pertiche in terra, in modo da formare un cerchio di 40/50 cm, poi appoggiò ad esse la legna, tagliata ad un metro di lunghezza.
Sopra al primo giro ne appoggiò un altro ed un altro ancora, in modo da formare una montagna rotonda con al centro un buco, il camino della carbonaia.
Tutta la legna fu poi ricoperta da “paltriccia” e terra fine e in fondo alla carbonaia fece una specie di zoccolo di sassi, il “calzolo”. Questo modo di costruire una carbonaia è detto “alla rocchina” e si differenzia da quello in buca, meno diffuso perché meno redditizio.
Da un fuoco acceso in terra il nonno prese delle braci, le buttò nel camino e aggiunse altra legna fine perché il fuoco non si spegnesse. Chiuse infine il buco del camino con il “piodone”.
Il nonno sorvegliò e rimboccò la carbonaia giorno e notte, aggiungendo legna fino a quando il camino non fu pieno di braci, poi lo chiuse e lasciò che il calore, dall’alto tornasse in basso, cuocendo la legna.
Dopo circa una settimana il carbone era pronto e il nonno dette inizio alla cavatura, operazione in cui il carbone viene separato dalla terra, freddato se necessario e poi messo con il “valletto” nelle “balle da magona”.
Quando il carbone fu pronto facemmo una gran festa, proiettando diapositive, intervistando altri carbonai ed anche la preside si congratulò con noi.
Uno di questi carbonai era speciale perché era il fratello di mio padre che da giovane aveva fatto tante volte carbone e carbonella.. Essendo però anche un poeta dialettale, cantò davanti a tutti la poesia che segue, scritta da lui ed ebbe un gran successo!
In prima fila tre anziani carbonai
“Il carbonaro“ Auguri, amici miei, a tutti quanti, oggi alla festa siamo del carbone, pure un tempo si faceva in tanti, zoccolo un piede e un vecchio scarpone, così la vita si tirava avanti, vivendo nel bosco sotto un baraccone, essendo neri dal capo alle piante, versar sudore e con fatiche tante!
Pennato, accetta per tagliar le piante e la legna farla di misura ed il lavoro si facea pesante radunando il legname alla cottura, delle burrasche si prendevan tante, pioggia, vento, neve e gelatura, oggi siam qui per divertimento, a rifarlo per mestier sarei sgomento.
Notte e giorno sempre in movimento, poco tempo aver da riposare, se la burrasca poi dava tormento non rimaneva il tempo per mangiare. Tralascio questo verso e l’argomento, vi voglio amici cari salutare, lasciando il passato, pensando al futuro carbone nero è nato e sempre è scuro! (Guidi Pietro)
Il carbonaio Pietro Guidi
Parole specifiche del linguaggio del carbonaio
“Paltriccia”: insieme di zolle di terra, muschio, foglie, erba secca con cui va ricoperta la carbonaia.
“Calzolo” (calzuolo): zoccolo di sassi e zolle di terra in fondo alla carbonaia.
“Piodone”: grossa zolla di erba e terra con cui si chiudeva il camino della carbonaia.
“Valletto”: piccolo cesto con cui si metteva il carbone nelle balle da magona.
“Balla”: sacco di juta.
“Balle” da magona: balle molto grandi (magona = abbondanza).
“Sestare” il terreno: spianare il terreno.
“Fumaioli “: buchi.
“Buzza”: carbone fino dentro al camino.
“Sermondare” la carbonaia: togliere la paltriccia e scoprire il carbone.
L’infermiera degli aquiloni
Un ‘altra esperienza positiva a Diecimo fu la creazione di aquiloni, in occasione di un progetto sul fiume Serchio, ma l’idea si rivelò di non facile attuazione perché chi ci assicurava che avrebbero volato?
Per fortuna ci venne in aiuto un genitore che costruì proprio per noi una base con degli incastri in cui infilare i bastoncini che servivano come scheletro agli aquiloni. Rispettate le misure indicate, lo scheletro era pronto per essere rivestito di carta colorata, da incollare sul legno. Montato il primo aquilone, lo provammo e volava davvero! Così ci mettemmo all’opera, ma più ne realizzavamo, più familiari dei ragazzi, maestre della materna, collaboratrici, impiegate della direzione…. ce ne chiedevano… insomma ne montammo centoventi!
In una mattinata di giugno andammo sul greto del fiume ed ogni bambino fece alzare in cielo il suo aquilone ma ogni tanto alcuni rimanevano attaccati alla vegetazione e si strappava la carta…
Per fortuna avevamo portato con noi tutto il necessario per le riparazioni ed alla fine, dopo tanti interventi, fui nominata ufficialmente “l’infermiera degli aquiloni “e rimasi tale per parecchi anni!
In uno dei cinque anni in cui ho insegnato a Diecimo, in occasione della festa di fine anno, realizzammo uno spettacolo sulle avventure di Pinocchio, verso la metà di maggio.
Piacque così tanto che alcune insegnanti di Fiano ci invitarono a ripeterlo una mattina nella loro scuola. Noi accettammo ma il difficile era trasportare le scene, perché, gigantesche ed ingombranti, non si potevano caricare dentro al pulmino del Comune, con i bambini, non solo per una questione di spazio, ma soprattutto per motivi di sicurezza. Parecchi dei docenti furono perciò costretti a fare il viaggio con la propria auto, carica di cartoni, scatole, tavole… Io avevo la Panda 4x 4 con il portapacchi e lì sistemarono qualche travicello un po’ troppo lungo ed una cassa da morto realizzata per lo spettacolo da un abile genitore. Si vedeva che era piccola, ma da lontano faceva una certa impressione e così i colleghi cominciarono bonariamente a prendermi in giro…
La mattina dello spettacolo dovevamo arrivare presto a Fiano per montare tutte le scene, io ero d’accordo con l’autista del pulmino che mi avrebbe aspettato e poi io l’avrei seguito perché non conoscevo la strada ma lui si dimenticò dell’appuntamento e così rimasi da sola ad affrontare il viaggio perché i colleghi erano partiti prima…
A quel tempo nessuno aveva il cellulare e quindi io fui costretta ad un certo punto a fermarmi ad un bar per chiedere informazioni che mi furono date gentilmente da un signore, il quale però, avendo notato la cassa da morto sul tetto della Panda, si mise a ridere e mi chiese che mestiere facevo. “Il becchino!” risposi io risalendo in auto…
Ero ancora lontana dalla meta quando una pattuglia dei vigili urbani notò il mio carico e mi fermò.
Per fortuna uno dei due era il capoguardia che conoscevo dall’infanzia e così gli spiegai quel che stavo facendo, lui mi sorrise e sottolineò soltanto: “Vai piano e stai attenta ai travicelli che spuntano un po’ troppo dal tetto, ma ormai sei quasi arrivata, ancora cinque o sei chilometri”.
Io lo ringraziai e ripartii, ma intanto si era fatto sempre più tardi e senza di me non potevano cominciare!
Dietro una curva a gomito era successo un incidente, nessuno si era fatto male ma furono avvertiti i carabinieri che fermarono il traffico e quando riaprirono la strada mi urlarono di stare attenta con quel carico sporgente….
Finalmente arrivai alla scuola di Fiano ma le disavventure non erano ancora finite, perché tutti avevano fretta di scaricare il materiale e l’ultimo travicello finì sulla mia testa….
A quel punto non ci vidi più dal male e dalla rabbia e me la presi con i miei colleghi che non mi avevano mai visto adirata.
Nel viaggio di ritorno cercarono di farsi perdonare guidando la mia auto fino a Diecimo anche perché io avevo un forte mal di testa!
Il giorno seguente, passata la rabbia, raccontai per filo e per segno ciò che mi era successo durante il viaggio a Fiano e ridemmo a crepapelle per tutta la settimana!
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