Mio padre Enrico, nipote del Nisio, era nato da Giovanni e Marianna Gonnella il 30 marzo 1921, ai Battisti, penultimo di sei figli, quattro femmine e due maschi, nella più assoluta povertà.
Era stato allevato dalla sorella Assunta, maggiore di sette anni, perché a quel tempo i figli più grandi aiutavano in casa già in tenera età.
Tutti e due avevano un buon carattere, erano sempre ottimisti e fiduciosi anche nei giorni più neri, coraggiosi, giusti, ma anche severi, se necessario .
Da bambino andava a scuola ed era bravissimo in matematica, ma aiutava anche i genitori nei lavori agricoli.
Conseguì anche il diploma di licenza elementare, ma da adulto, alla scuola serale di Renaio.
Quando era tempo di funghi si alzava al mattino presto, preparava un po’ di pane per il pranzo e s’incamminava nei boschi; tornava a casa solo quando il cesto che teneva nello zaino era pieno. A volte i funghi non arrivavano neanche a casa perché riusciva a venderli prima. A Renaio, infatti, almeno due volte alla settimana, veniva un commerciante di Lucca che pagava bene, a patto che i funghi fossero giovani, saldi ed asciutti, ma se il venditore era un bambino cercava di approfittarne.
A volte barava anche sul peso o sul conto… “Tanto quassù nessuno sa leggere e scrivere” pensava, ma si sbagliava perché Enrico era un campione in matematica e quando il compratore gli mostrava il peso dei funghi, lui sapeva già quanto avrebbe riscosso.
Al primo inganno Enrico, che era anche molto buono, pensò: “Forse mi sono sbagliato io!” e lasciò correre; la seconda volta capì di che pasta era fatto il commerciante, ma era troppo piccolo per protestare da solo…
Pensò che se avesse parlato con suo padre, forse le avrebbe anche prese per non averlo avvertito prima; da solo non sarebbe stato ascoltato…. L’unico che poteva aiutarlo era il parroco del paese, uomo giusto ed istruito, ma anche fumino se serviva!
Durante il racconto di Enrico il prete diventò rosso come un peperone, cominciò a brontolare fra i denti e poi decise: “Domani , quando torni con i funghi, vieni qui in canonica!”
Il bambino fece come gli aveva detto il parroco che, appena lo vide, prese il cesto, tolse i funghi più brutti, pesò gli altri e poi insieme ad Enrico andò nella piazza del paese e mentre il bambino trattava la vendita dei funghi, lui fece finta di passeggiare, ascoltando però il dialogo con il commerciante e quando questi cercò d’ingannare Enrico si avvicinò e mancò poco che non lo prendesse a pugni: “Sono un prete, ma se occorre mi tolgo la tonaca e ti faccio vedere io!!!” e si avvicinò con un grosso martello in mano.
Il compratore fece di nuovo il conto, questa volta giusto e poi se ne andò di corsa ed al suo posto, la settimana successiva, venne un altro commerciante.
A tredici anni Enrico costruì da solo e cosse la sua prima carbonaia e con il guadagno pagò i debiti della famiglia, dovuti soprattutto ai matrimoni delle quattro sorelle.
Quando ebbe pagato tutti i creditori, si mise le mani in tasca: non aveva più niente, ma si sentiva felice e leggero come una piuma. Da quel momento il padre gli affidò la gestione di tutta la famiglia.
Era un ragazzone robusto e più grande della sua età, così ben presto si trovò una morosa, ma le cose non andarono bene e dopo ben cinque anni si lasciarono. Poi incontrò la sua prima moglie e nel 1941 si sposarono anche se era da poco partito per la leva; per fortuna non fu mai spedito al fronte perché aveva una brutta ernia che lo torturava da anni e che forse gli salvò la vita.
A dir la verità, aveva invidiato tanto il cugino che non era dovuto partire perché gli mancavano le dita di una mano. La sorte però volle che venisse ucciso davanti alla porta di casa, agli Antonelli (di fronte i Battisti) , mentre teneva in braccio Giulio, il figlioletto di un anno.
Enrico era militare in provincia di Cuneo, presso la caserma Maccao di Fossano insieme a tanti altri soldati provenienti da tutta Italia. Durante la seconda guerra i suoi superiori lo mandavano a lavorare presso una fattoria lì vicina e quindi aveva i pasti assicurati, ma quando arrivò l’8 settembre ’43 tutti i militari fuggirono.
Enrico aveva deciso di accettare l’ospitalità di un suo amico che viveva nelle campagne vicine, Giovanni Bracco, più grande di lui di qualche anno. Lungo la fuga però incontrò dei militari lucchesi e si unì a loro.
Avevano tutti bisogno di abiti civili, perciò bussarono alle porte dei contadini della zona e furono sfamati e rivestiti; poi si diressero verso la stazione più vicina per salire sul primo treno diretto a Genova o comunque verso il centro Italia. Ma quando il treno arrivò era stracarico e faticarono perfino a trovare un posto in piedi.
Durante il viaggio passò il controllore e chiese i biglietti: nessuno ce li aveva… il poveruomo ci pensò un po’ e poi quasi supplicò: “Ce l’avete almeno un po’ di pane? Ho fame anch’io!”
Tutti tirarono fuori quel che avevano nello zaino e ci fu cibo per tutti.
Dopo qualche giorno, tra un bombardamento e l’altro, il treno riuscì ad arrivare a Genova, ma alla stazione passavano le ronde tedesche ed era pericoloso farsi vedere in giro. Enrico stava per finire nelle loro mani quando una signora elegante, ben vestita e gentile si avvicinò a lui e gli disse: ”Stai attento, sono vicini, vieni qui, ti chiudo nel bagno e ti riapro a pericolo passato” e così fece. Quando Enrico fu liberato si accorse che molti dei suoi compagni erano stati catturati… Il ragazzo ringraziò la donna e lei gli spiegò che anche suo figlio era in guerra e sperava che qualche altra madre lo aiutasse come lei aveva fatto con lui.
Dopo una quindicina di giorni dalla partenza Enrico giunse di nuovo a casa e si nascose nei boschi fino alla fine della guerra. Dopo la liberazione ricominciò a fare la vita di sempre, da boscaiolo e carbonaio .
Nei primi anni ‘60 aveva una ditta artigianale: in inverno produceva carbone vicino a casa e nell’estate legna nella macchia.
Quando erano sull’Appennino era impossibile per loro tornare a casa tutte le sere, perciò viveva in baracca e tornava ogni settimana ed a volte anche ogni due . A quel tempo non aveva i soldi per portarci al mare a noi della famiglia, ma ci portava ìcon lui in montagna. Nel 1961 io, mio fratello e la mamma andammo con lui sull’Alpe delle Tre Potenze. Ricordo poco o nulla a ma so che in quindici giorni mangiai tantissime fragoline di bosco con lo zucchero…
Ricordo invece le vacanze in Capo Corsonna nel 1963: arrivammo fino ad un certo punto sopra un camion e poi continuammo a piedi finchè giungemmo davanti ad una baracca chiusa con rami di legno . Dentro. in fondo, di fronte all’entrata, c’era un focolare improvvisato e sopra, a diritto un buco nel tetto, di fianco , sulla sinistra, i pagliericci degli operai, realizzati con sacchi di foglie di faggio e coperte, sulla destra il giaciglio per la nostra famiglia. Quello che mi sembrò più strano fu il dormire vestiti, con il fuoco acceso, credo, anche la notte .
Durante l’estate andavamo qualche giorno anche ai Giuliani, sopra Renaio , dove c’era il capannello di famiglia , che conservava ancora oggetti creati dal Nisio. Io e mio fratello facevamo colazione in due scodelle di legno che aveva realizzato lui stesso.
Siccome l’acqua in casa non c’era, andavamo a prenderla ad una sorgente vicina, io con il fiasco e mio fratello con la barletta, una specie di botte piccola, ovale , schiacciata nel mezzo, che manteneva l’acqua fresca.
Negli anni ’70 mio padre smise di produrre carbone perché c’era poca richiesta, ma continuò a tagliare legna da ardere . Negli anni ’80 andò in pensione ed allora decise di costruire una carbonaia vicino a casa per mostrare ai bambini di oggi come si produce il carbone di legna. E’ così che è diventato “Enrico, l’ultimo carbonaio”.


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