“Eccole qua Antonio, fresche, fresche di giornata” disse sorridente il Raffaello Baiocchi sollevando sul bancone il grezzo contenitore dove una ventina di uova parevano un piccolo esercito di soldatini, “Buon lavoro e stai attento a non finire con il sedere per terra mentre attraversi il Ponte” lo canzonava accompagnandolo alla porta.
Il babbo, che abitualmente amava soffermarvisi per dare uno sguardo sull’antico borgo e godersi quotidianamente ogni dettaglio di quella vista, in quell’occasione tirava dritto fino a casa; giusto una sbirciatina all’interno del negozio del Mario intento a far barba e capelli al cliente di turno ed un saluto al Vittorio Turri che dall’altra parte del ponte osserva compiaciuto la Licia che sta allestendo nelle vetrine la scenografia pasquale che anche quell’anno avrebbe strappato un “wow” di meraviglia a grandi e piccini.
Il prezioso contenuto, tanto atteso da me e da Giuse che da piccine non vedevamo l’ora di vedere il babbo all’opera, arrivava così sano e salvo a casa dove era poi l’Emilia ad occuparsi della loro cottura; le adagiava delicatamente in una pentola con acqua fredda ed attendeva pazientemente la loro cottura infine le asciugava e con estrema cura le riponeva nuovamente nel loro contenitore nell’attesa che pennelli e colori dessero loro nuova vita.
La creatività del babbo prendeva poi forma attraverso la realizzazione di paesaggi bucolici con particolare attenzione ai più piccoli dettagli.
Le uova diventavano così piccoli “quadri” in miniatura dove candidi agnellini giocavano tra l’erba dei pascoli, chiocce accovacciate nei canestri assieme a piccoli batuffoli gialli che facevano capolino tra le uova schiuse; sui fiori di campo erano posate farfalle dalle ali variopinte;
Con estrema precisione, attraverso le setole, nascevano sentieri delimitati da staccionate che conducevano a piccoli casolari di campagna dove tralci di edera correvano sulle mura in pietra.
Non poteva mancare il campanile di San Rocco, seminascosto da un immaginario ramo di pesco in fiore, con le rondini che sfrecciavano attorno alla piccola torre campanaria.
Quell’anonimo contenitore di cartone adesso conteneva ore ed ore di lavoro, di precisione, di un misto tra realtà e fantasia, di attesa affinché un “lato” si asciugasse prima di procedere alla pittura dell’altro; ma non mancavano anche momenti di sconforto quando una presa o troppo leggera o troppo forte incrinava il guscio rendendo vano tutto il lavoro.
Con il passare degli anni, attratta da questa sua passione, lo convinsi del fatto che, se volevamo conservare quelle creazioni il più a lungo possibile, era necessario cambiare il procedimento: le uova non dovevano essere più cotte ma svuotate del loro contenuto.
Con uno spillo picchiettavamo delicatamente nella parte superiore dell’uovo fino a creare un piccolo forellino mentre nella parte inferiore il foro avrebbe dovuto essere un po’ più grosso.
A quel punto arrivava il “duro” lavoro, dovevamo soffiare, soffiare così forte in quel piccolo forellino da cui sarebbero usciti prima l’albume e poi il tuorlo dando quindi il via a tutte le nostre capacità polmonari.
Infinite sono state le volte in cui ho provato a riprodurre le decorazioni del babbo finché non ho compreso che ogni uovo era unico ed irripetibile e ciò rendeva tutto un po’ più speciale.
Ogni anno il durante il pranzo di Pasqua a tavola si svolgeva una specie di “gara” a chi tra il babbo me e Giuse aveva dipinto l’uovo migliore; una tovaglia rigorosamente bianca diventava il “campo da gioco”, lì su quel candido colore le uova mostravano tutto il loro splendore.
A distanza di anni di quelle piccole e fragili uova non è rimasto niente tranne un vecchio pennello del babbo, unico ricordo di quei tempi passati; quanti colori ha visto, quanti sorrisi ha saputo creare… quel semplice pennello racconta ancora oggi la bellezza e l’unicità di quei momenti fatti di spensieratezza ed infinita felicità.
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