“Sveglia oh… Apri!” Una voce lontana costrinse Fausto a riemergere dal torpore in cui era sprofondato. Che giorno era, dove si trovava? Un bagliore candido lo circondava. Realizzò di essere in auto, bloccato dalla neve. Qualcuno bussava con insistenza. La voce ovattata, si fece gracchiante, avrebbe voluto che tacesse. Irritato, riuscì in qualche modo ad alzare il braccio sinistro per pulire il finestrino dalla condensa cristallizzata. Trasalì. Schiacciato contro il vetro, gli apparve un volto, la befana. Calcolò con mente ancora intorpidita i giorni che lo separavano dall’ Epifania; 13 o 14, forse.
“E’ in anticipo.” Si disse, sorpreso e ad alta voce.
“Ma che anticipo, è un po’ che ti cerco qui al freddo. Ti manda il Gigin? Sorti, lesto che vien buio!”
La vecchietta sembrava uscita da una fiaba dei fratelli Grimm ad eccezione dei pantaloni infilati in un paio di stivaloni fuxia, decisamente moderni. Sulla quantità di indumenti indossati a caso ma con l’evidente scopo di proteggersi dal freddo, spiccava un grazioso scialletto che, per contrasto, la faceva apparire ancora più curva e trasandata. Senza attendere che proferisse parola, gli indicò un secolare pioppo nero, poco distante, e si avviò in quella direzione con passo deciso. Lui la seguì ormai vigile, non a causa del freddo pungente ma per pura curiosità. Il motivo di tanta fretta si trovava su uno dei rami possenti che resisteva con eleganza al peso della neve.
“E’ monta colassue e non vol veni’ giue.” Bofonchiò la donna, accompagnando le parole con un movimento longitudinale e speculare di entrambe le mani. D’ istinto, Fausto, non avendo capito granché, alzò la testa seguendo l’indice bitorzoluto. Strizzati gli occhi, nel bianco che predominava la scena, scorse un becco giallo, una cresta rossa ed infine una gallina tutta intera.
“L’ hai vista è, quella matta. Valla a piglia’ che mi son ghiacci i piedi e tra po’ vien giù ogni ben di Dio.” Aggiunse scrutando il cielo plumbeo. Si sentiva confuso, molto confuso, non sapeva da che parte cominciare per spiegare a quell’essere arrivato dal nulla che lui si trovava lì per caso, che non aveva mai conosciuto un Gigin e nessuna intenzione di aiutarla. Però i trentacinque anni portati sulle spalle gli rammentarono che per risolvere gli imprevisti bisognava iniziare da quelli più urgenti, in questo caso la gallina.
“Signora, vede, non conosco Gigin inoltre non so arrampicarmi, soffro le vertigini. Non vedo quindi come potrei esserle di aiuto.”
“Anche la mi Tilde soffre se la lasciam lassù da sola, un c’è avvezza. L’ ho visto che sei cittadino, con quelle scarpine lucide e striminzite, in dove vorresti arriva’?” Fece una pausa per soffocare una risata che invece esplose tra nuvolette di vapore, forte, catarrosa, quasi demoniaca.
“Grande e grosso come sei, hai paura, via un ci posso crede’, monta bischero, un c’è tempo da perdere.”
“La prego signora di non appellarmi in questi termini, non mi convincerà offendendomi.” Nonostante la donna avesse un aspetto dimesso, all’apparenza innocuo, lo metteva in soggezione, quasi un timore, forse retaggio infantile del dover dimostrare sempre di essere capace, adulto, all’altezza.
“L’ appello si fa a scuola, qui si tribola caro mio, prova con la stiampa ma un pia’ la gallina che me l’ammazzi.” Così dicendo gli porse un ciocco di legno, Fausto rivide quelli che suo padre acquistava, scegliendoli con cura, tra i tronchi di quercia da ardere in ogni notte della vigilia di Natale, la cena di magro, i crostini con il cavolo nero ed i maglioni giganti confezionati per tutta la famiglia dalla zia Rosaria. Ricordi assopiti. Un lancio ben calibrato e la Tilde planò giù fin sul grembiule scozzese ben aperto, dove renne in sovrappeso si rincorrevano festose, pronto ad accoglierla, insieme alla neve dei rami e quella del cielo che aveva cominciato a rilasciare copiosi, silenziosi fiocchi.
“Bravo figliolo, ora vieni a scaldarti che te lo sei meritato.” Malgrado il diniego e le proteste ricevute, la vecchia non sentì ragioni, Fausto fu costretto di nuovo a seguirla, consapevole di non aver scampo e di dover affrontare il problema numero due: la fuga.
La rimessa agricola che li attendeva, unica costruzione visibile ad occhio nudo, era angusta, affastellata di attrezzi ed ammennicoli misteriosi. Dal soffitto pendevano mazzi di erbe di ogni genere, sugli scaffali ben ordinati, ceste di diverse forme e dimensioni facevano bella mostra di sé. In un angolo una stufa in ghisa, spenta, aveva vissuto tempi laboriosi.
Fausto non potendo attendere, riuscì in breve a dipanare la sua storia, nel tentativo di interrompere il sequestro, esaurendo le domande che la donna snocciolava come un rosario. Veniva da un pranzo aziendale, un corporate working lunch di Natale, quelli noiosi, prevedibili, nei quali non conosci nemmeno il tuo vicino di sedia, dove si parla solo di numeri, di marketing, degli utili in calo, compunti, seriosi, tra cibo scadente e vino pessimo. Risultato; aveva assistito distratto, spilluzzicando poco e compensando, bevendo assai. Insomma, giusto per educazione, dopo aver stretto la mano a tutti, si era infilato in auto convinto di aver preso la direzione giusta. Invece tra curve e tornanti da rally, attraverso paesini da presepe pressoché identici, convinto di essere ritornato al punto di partenza, aveva imboccato la prima strada in discesa. Neve, stanchezza, dolore alle tempie persistente e strega. Ovviamente nel racconto tradusse le parole inglesi, evitò di citare la befana ed i suoi sinonimi, spiattellare del litigio con Daniela la sua ragazza sul fatto che lui trovasse insensato il Natale, del mutuo da pagare, delle decine di curricula spediti in attesa di risposta e del licenziamento a fine anno, dall’impiego che oltre tutto non amava. Bella strenna di Natale. Nel frattempo la Tilde era sparita dentro un corbelletto ed un gatto nero, sbucato da una fessura tra le tavole schiodate, lo fissava sornione.
“Io sono Spera che sarebbe Speranza, scordati la cena, un c’è nulla, ci possiamo ciuccia’ un chiodo, però sei fortunato, ti faccio una tisanina che ti farà passare tutti i mali del mondo.”
“Grazie ma devo proprio andare, ho bisogno del mio letto…”
“Allora un voi intende’, lo spalaneve passa domani mattina, anche io vorrei essere a casa ma ci tocca sta’ dove siamo. Ci arrangiamo sulle sdraio della Versilia, con i piedi verso la stufa e appena torna giorno vai in macchina, chiami la tu morosa, se ce l’hai, e torni a valle.”
L’uomo si frugò in tasca, lo schermo dello smartphone parlava chiaro, niente linea. Lo appoggiò deluso su una cassetta. Situazione drammatica dover passare la notte in compagnia della megera, con un martello dentro al cranio ed a stomaco vuoto per giunta. Si figurò i colleghi, presto ex, chiamarlo Infausto, sbellicarsi dalle risa per giorni ed insignirlo con la patente dello sfigato. Un nodo in gola gli impediva di respirare mentre sudava copiosamente, vide Spera come attraverso uno specchio d’acqua, deformata e quasi trasparente. Il suo mondo era a pezzi, senza via d’uscita.
“Mi manca l’aria, mi sento il cuore in gola, mi scoppia la testa, mi duole il torace…”
Speranza ebbe un moto di compassione verso una generazione che poteva essere quella dei suoi nipoti, quasi forzati a vivere intensamente, sempre di corsa, sempre a cercare la perfezione, perdevano le sfumature, la bellezza e magari le opportunità della vita. La voce le cambiò di tono, si fece dolce. Quel giovanotto educato che camminava con le spalle prostrate era sensibile, viveva le emozioni con forte intensità, aveva bisogno di rimettere a posto la sua esistenza. Lo fece distendere sulla sdraio rossa con la scritta salvataggio per parlargli con tranquilla fermezza.
“Impara a rilassarti, cerca la calma dentro di te. Riempi i polmoni di aria, lentamente e ributtala fuori. Aspetta, aspetta. Ci sarà tempo per agire. Vuoi risolvere i problemi? Allora non fare niente. Ogni tanto canta, canta anche se non ti va. Bevi, su, bevi a piccoli sorsi.” Gli porse una chicchera fumante e intonò una nenia.
“Dormici su. La vita darà occasioni alle tue virtù. Dormici, dormici su.”
Intanto che la vecchietta, un vulcano di parole, gli raccontava di cose della sua gioventù, nomi assurdi, il ponte delle tavole, luoghi ed anni a lui lontani, riuscì ad appassionarsi a quelle storie ed a mano, a mano che gli eventi si rincorrevano, entrò in un’altra dimensione di sogni, di cambiamenti, di riconciliazione. Era giunto il momento di riprendersi la vita. Nell’attimo prima di cedere a Morfeo, vide brillare una stella attraverso la finestra coperta di ragnatele, pensò a Daniela. Era stato un cretino a riversare su di lei tutte le sue incertezze ma l’orgoglio gli aveva impedito di ammetterlo, a costo di perderla. L’infuso era saporito, sapeva di bacche, di more e lamponi, percepì l’odore intenso del timo, del rosmarino appesi insieme ai fiori di lavanda e delle mele cotogne sugli stipetti. Pigne di pino e coccole di cipresso ardevano nella stufa, spargendo l’aroma di resina. Le bucce di mandarino intrecciate in collane appese al caldo tubo, portavano alle sue narici il profumo del Natale. Tutti questi aromi gli riattivarono la memoria olfattiva e gli menzionarono di essere un naso, o meglio un maitre parfumeur anche se lui si definiva un semplice profumiere, una vocazione si può dire, per lui innata, fin da bambino riconosceva qualsiasi cosa e persona, prima con l’olfatto e poi con la vista, gli studi di chimica e l’accademia furono solo la naturale conseguenza. Quando Speranza si accomodò al suo fianco, per condividere il tepore della brace, un soffio di borotalco misto ad acqua di rose lo investì. Un profumo da nonna, delicato come quello della mattina di Natale sprigionato dalle lenzuola, quando da bambino i nonni lo accoglievano nel lettone. Sentì, ben distinto, il rumore dei piedini svelti ed infreddoliti battere sulle lisce mezzane di cotto e braccia calde accoglierlo affettuose. Atteso pazientemente che l’umano fosse scivolato nel mondo dei sogni Goffredo, il gatto, gli saltò sue gambe per acciambellarsi, dopo aver ben bene impastato sopra i jeans al ritmo di fusa.
Mentre il cielo si rasserenava e il cingolato, operativo fin dalle prime luci dell’alba, liberata la strada, già si dirigeva per altri intersecati viottoli, un odorino di cibo riempì la catapecchia.
“To’, la Tilde ti fa gli auguri di Buon Natale, le devi esse’ simpatico, gallina ovaiola non delude mai.” Una Spera sorridente aveva preparato una frittatina alle erbe aromatiche e non aspettava altro che vederla mangiare. Fausto lo fece con gusto, gli sembrò di non aver mai assaggiato una colazione così buona.
Il cellulare sulla cassetta, interruppe l’idillio ballonzolando.
Sotto lo sguardo indagatore della vecchina, tra i messaggi, decine di auguri di ogni sorta, quello di Daniela fu il primo che aprì.
Come va la cena? Mi manchi
poi del suo coinquilino:
Fausto, ti hanno preso; complimenti nasone!
Rispose in fretta:
Dani, ora so come sarà il Natale, il nostro Natale, se lo vorrai sarà Speranza


Graziano Cipollini
26 Dicembre 2024 alle 10:06
Un racconto che riporta in se’ molta speranza e positività , che fa bene al nostro essere noi , nella semplicita’ e nella franchezza di perseguire sogni che se vogliamo possono avverarsi.