Un trattato capestro

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“Eccoci al camposanto, finalmente siamo arrivati –  esclamò l’anziano  Gustavo, un corpulento omaccione, asciugandosi il sudore sulla faccia -. Questi due chilometri di cammino mi hanno fiaccato, ormai sono al tramonto…”.

 “Macché tramonto, siamo ancora ventenni”,  fece un altro, ridendo.

Ed un’altra: “Comunque il tramonto è sempre bellissimo: pensate al sole che s’immerge lentamente nel mare all’orizzonte, dalla nostra costa tirrenica: è una visione meravigliosa”.

Il gruppo di amici paesani, in gran parte pensionati, ma fra i quali figurava qualche giovane, dopo giorni di pioggia che li costringeva a  stare al chiuso, aveva approfittato della splendida giornata con un bel sole autunnale, per  muoversi, per sciogliersi.

Comincia il ‘giro’ del cimitero, da parte dei nostri, che si soffermano alle tombe dei propri cari, meditando, pregando, sì; ma anche parlando, commentando.

 “Mamma mia come fa tristezza pensare alla morte, ed in questo luogo si può dire che si tocca con mano”.

L’espressione era di un giovane, ancora studente, che ricevette un’occhiata, un segno di condivisione da un suo coetaneo, il di cui padre però intervenne diversamente:

“La morte fa parte della vita, perché ne è il suo inevitabile compimento, come la nascita ne è l’inizio. Pensare a questa verità è positivo perché, riconoscendo la nostra caducità, ci rende più umili e decisamente più in pace, staccati dalle frenetiche competizioni mondane, che in fin di conti provocano l’angoscia e la depressione – l’uomo, ormai vecchio, con il busto piegato leggermente in avanti, per tanti anni sagrestano della parrocchia, dopo una pausa riprese il suo dire –: Diversi secoli fa, fra le persone benestanti, facoltose, usava adagiare i loro morti in sepolcri, in genere in stanze sotterranee, salme che venivano mostrate, specie ai giovani familiari, come segno tangibile della corruzione della carne. A questo proposito è noto come, nel sedicesimo secolo, San Francesco dei Borgia, nobile famiglia spagnola, alla vista del volto dell’imperatrice Isabella, decomposto dalla morte, e alla perdita della moglie, da cui aveva avuto otto figli, rinunciò al ducato e a tutti gli incarichi di corte ed entrò nella Compagnia di Gesù, da poco fondata dal suo compatriota Ignazio di Loyola. Fu religioso esemplare, e diventò Superiore Generale dei gesuiti, che, sotto di lui, ebbero grande diffusione in Europa ed in America. Ecco, grazie anche alla vista di quel volto putrefatto, quest’uomo, diventò un Santo, un benefattore dell’umanità”.

Al volo, uno dei presenti sintetizzò:

“Insomma, per dirla crudamente, ognuno che nasce è un condannato a morte!”.

E, di rimando, un’altra aggiunse:

  “So che in un cimitero, non ricordo quale, c’è una tomba di un personaggio, passato alla storia, sulla cui lapide vi è inciso:  ‘Fermati, viandante, e medita: io fui quel che tu sei, tu sarai quel ch’io sono’”.

Al che il sagrestano di cui sopra, volle aggiungere:

“Sì, la morte decreta la fine della vita in questo mondo, ma segna anche il giorno della nascita nell’altro mondo! Infatti la Chiesa, nella sua saggezza, commemora i Santi in questa ottica.  Ad esempio, Sant’Antonio da Padova viene commemorato ogni 13 di giugno: ebbene quello è il giorno della sua morte terrena e, nel contempo, soprattutto, è quello della sua entrata nei Cieli”.

Girando per il camposanto i camminatori s’imbatterono nel monumento di un locale personaggio importante, che si era distinto creando pregevoli pitture, e subito qualcuno ebbe a dire:

“Qui, nella nostra vita, chi emerge, chi si afferma con qualsivoglia opera, riceve onori d’ogni genere e alla sua morte solenni esequie, ed ai posteri viene trasmesso un  suo ricordo imperituro; invece per noi, gente comune, niente di tutto questo. Chissà se ciò varrà anche nell’ipotetica altra vita”.

L’affermazione, la domanda provocatoria di quel tizio presupponeva una risposta in merito. E questa gli venne da Elena, una ex insegnante, donna colta e ponderata.

“Credo che lei sia cristiano – e quell’uomo accennò di sì, muovendo la testa -, dunque dovrebbe sapere che Gesù non ha dato nessuna importanza alle glorie di questo mondo, ma ha prediletto i semplici, i più bisognosi. Lui stesso che come Dio medesimo poteva creare opere meravigliose, fare scoperte eccezionali, come nessun altro potrebbe mai fare, non ha fatto nulla di ciò, nemmeno ha lasciato nessun suo scritto, lasciando ai quattro evangelisti questo compito. Ma ha insegnato l’amore, quello vero, verso Dio e verso il prossimo. Perciò, alla sua morte, chi opera sinceramente con questo concetto, meriterà di entrare nel Regno dei Cieli”.

Poi i nostri scorgono che presso una sepoltura ci sono alcune persone che nessuno sembrava conoscere.

“Devono essere ‘di fuori’, disse uno.

“Ho capito di chi si tratta – fece Adelina, una donna di mezza età, magra, asciutta, ma atletica -. Costoro devono essere parenti del defunto che si trova in quella tomba: si tratta di Giusto, un profugo istriano, vedovo, che abitava in un appartamento del casamento dove vivo io. Un uomo buono, per bene, che fu accolto, con altri, nel nostro comune, nel dopoguerra, quando i comunisti jugoslavi del Maresciallo Tito ammazzavano gli italiani, e ricordiamo le tristemente note ‘foibe’: tutto questo determinò l’esodo in massa di quei nostri connazionali che lasciarono in mano ai crudeli usurpatori i loro beni e, quel che è peggio, quella italica terra”, e così dicendo Adelina, con gli altri, si avvicinò a quei forestieri, che gentilmente e con evidente piacere accettarono di parlare.

Rispose un uomo assai in là con gli anni, mingherlino, ma lucido di mente, di nome Ugo.

“Mio padre era fratello del qui sepolto Giusto, che quindi era mio zio. Al tempo che i titini davano la caccia spietata a noi italiani io ero un ragazzo e, con i miei genitori, risiedevo nell’isola di Cherso, a differenza di mio zio Giusto, che invece abitava nei pressi di Fiume. Una sera, fuggendo, riuscimmo ad imbarcarci su un vecchio battello stracarico di profughi e, navigando nottetempo, sbarcammo sulla costa veneta: si era salvi! Poi mio padre trovò da lavorare e si prese dimora in provincia di Padova, dove risiedo tuttora con la mia famiglia, che è la presente – e, indicando le persone -: mia moglie,  mio figlio, mia nuora. Siamo in vacanza nel fiorentino, ospiti di nostri conterranei, ed oggi ne abbiamo approfittato  per fare un salto in questo cimitero onde onorare la memoria di mio zio, pregare sulla sua tomba”.

 “Pure io ho conosciuto Giusto – entrò a parlare  Gustavo -, anzi diventammo amici, e tante volte mi narrava dell’odissea degli italiani, giuliani, dalmati, strappati con estrema violenza dalla loro, da quella nostra terra italiana, onde evitare il genocidio che era già iniziato. E purtroppo detta verità storica per tanti, troppi anni, è stata quasi nascosta finché, finalmente, la drammatica veridicità di quegli avvenimenti è venuta alla luce”.

 “Grazie di detta testimonianza su mio zio – riprese Ugo e, sorridendo leggermente, continuò -, ma a maggior affermazione della italianità delle nostre terre voglio citare come, nel ventennio, parlando della costa libica, veniva definita ‘la quarta sponda’, sapete quale erano le altre tre ?…La prima era la costa tirrenica, la seconda la costa adriatica, lato penisola italiana; ed infine, la terza, sempre costa adriatica, ma lato istriano, dalmato, ed anche albanese, cioè da quando l’Albania diventò appartenente all’Italia”.

“Non sapevamo di queste, diciamo denominazioni – commentò  Gustavo, anche a nome degli altri,

“Rassegnati per quel che avvenne nel 1945, sì, perché l’Italia allora niente poté fare per impedirlo – il figlio di Ugo con decisione era entrato nel tema della conversazione -; ma non rassegnati, ma ancora indignati per quel che fece il nostro governo con il trattato di Osimo”.

  “Che è detto trattato?”, chiese qualcuno.

Al che il giovane spiegò:

 “Nel 1975, esattamente l’undici di novembre, nella località italiana di Osimo, in provincia si Ancona, fu firmato tra Jugoslavia ed Italia un trattato con il quale si decretava definitiva la frontiera in atto, cioè noi rinunciavamo, giuridicamente, ad ogni futura legittima richiesta di tornare in possesso di quelle nostre terre…”

 “Ma ciò è vergognoso – intervenne Elena -, praticamente  è stato un capestro, un suicidio nazionale; ma chi era a capo del governo di allora, e che fu addotto per giustificare un simile atto contro la nostra nazione?”.

“Il governo era quello di Mariano Rumor, ed il motivo ufficiale era che finalmente si tornava in pace con i nostri bellicosi vicini dei Balcani, scongiurando ogni possibile guerra futura. Ma a che prezzo – esclamò con forza il figlio di Ugo, continuando poi con maggiore energìa -: Ma, d’altro canto, sembra che le nazioni occidentali, con le quali eravamo nella loro orbita, ci abbiano ‘consigliato’ di effettuare quel trattato con la Jugoslavia che, pur rimanendo comunista si era staccata da Mosca, quindi per premiarla, ed indurla ad avvicinarsi verso il blocco di nazioni guidate dagli USA”.

Il dire del giovane aveva commosso gli uditori, che parlottavano fra loro di questi fatti; poi, dopo una piccola pausa, riprese a parlare.

 “Ma ecco che, ironia della sorte, circa quindici anni dopo, nel 1991, i Balcani vengono scossi da una tremenda guerra civile: gli stati della Jugoslavia si ribellano alla Serbia che li teneva in duro pugno, vogliono riacquistare la loro singola indipendenza nazionale e, dopo lotte acerrime, ci riescono: la federazione jugoslava non c’è più, ed ogni singolo stato acquista la propria autonomia. Così Slovenia e Croazia si annettono quella parte della Venezia Giulia che già occupavano, mentre altrettanto fa la Dalmazia prendendosi la nostra provincia di Zara, la quale aveva la sigla automobilistica italiana: ‘ZA’! Ecco: se non ci fosse stato l’infausto trattato di Osimo, quello era il momento propizio, senza spargimenti di sangue, per reclamare il ritorno alla sovranità italiana di quei lembi della nostra patria, che  per il cui possesso tanto ci era costato in perdite umane nella prima guerra mondiale; e molto probabilmente, anche se non tutto, almeno una parte ci sarebbe stata resa”.

L’accorato parlare del giovane, che pur non essendo ancora nato al tempo dell’esodo, era ben presente al tempo del trattato suddetto, aveva colpito i presenti che avevano recepito il dramma di quella popolazione, così ben esposto. Dopodiché i nostri si accomiatarono dai loro interlocutori, con commozione reciproca, e presero la via del ritorno, ma a passo sostenuto perché si era fatto tardi.

“Con quest’andatura da bersagliere mi fate tornare il fiatone come nell’andata – protestò il solito Gustavo -, e fortuna che questa volta abbiamo la strada leggermente in discesa, più agevole”.

 “Abbiamo perso troppo tempo a chiacchierare, sia fra noi che con quei quattro – disse Anselmo, un uomo tarchiato, robusto, che pur anziano ancora lavorava come muratore -; ma, come avrete notato, io e Filippo siamo usciti prima e siamo andati al ponticello a vedere scorrere il torrente, in pace – e, guardando l’orologio, esclamò -: Perbacco, arriverò a casa in ritardo per l’ora consueta di cena”.

Adelina, al volo, a voce alta gli si rivolse, scherzosamente:

 “Così a casa, con la moglie che ti brontolerà per il ritardo, ti servirà la riserva di pace che hai accumulato al torrente!”.

Tutti proruppero in una sonora, lunga risata: ormai la tristezza causata dal grave argomento cui avevano preso parte, lasciava il posto ad una certa serenità.

(scritto nel settembre 2019)

Commenti

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  1. Gian Gabriele Bednedetti


    Sempre interessanti questi incontri soprattutto di pensionati, i quali, ogni volta, testimoniano la loro vitalità nel trattare varie e non sempre semplici argomentazioni. Ciò fa capire non solo l’attaccamento alla vita dei protagonisti, ma anche la conoscenza, sempre viva e attenta, ai temi dell’attualità, temi immancabilmente corroborati da un’esperienza ben collaudata nel tempo.

    In questo caso la visita al Cimitero dà origine ad un dibattito non di poco conto (con la partecipazione, pure, di qualche giovane) sull’esistenza, che vede vita e morte apparentemente a contrasto, e sul dramma, in passato colpevolmente dimenticato, dell’esodo forzato dalle terre dell’Istria.

    Nel primo caso, vita e morte (oggetto spesso di approfonditi studi religiosi, letterari, filosofici) si compendiano, quale realtà accertata, essendo parte integrante dell’umanità stessa. In questo caso il discorso si allarga, riportando pensieri alti sullo scopo esistenziale e sul fine ultimo dei nostri giorni. E per gli osservanti la morte non è la fine di tutto, bensì il passaggio dell’anima nell’aldilà, come annunciato dal nostro credo. Così la visita al cimitero può portarci a corroborare ancor più la nostra fede.

    Nel secondo caso, il ricordo di un’immane tragedia rivive intensamente, riportando, mai in toni esasperati, la grande sofferenza di un popolo costretto all’abbandono della propria terra, delle loro proprietà e, quasi, della propria identità medesima.

    L’autore riesce sempre, in termini concreti e con la sua parola schietta, a porci dinanzi tematiche che ci portano a meditare. Una meditazione acuta, ma senza mai portata a nascondere un volo di speranza


  2. Carissimo amico Gian Gabriele,
    ti ringrazio tanto e tanto per il bellissimo, profondo commento che hai fatto al mio modesto lavoro.
    Mario

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