“A mountain city”. Barga nei ricordi di Vernon Lee

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Joseph Pennell è oggi un nome sconosciuto ai più; chi si occupi di storia dell’arte potrà ricordarlo come valente illustratore americano vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo. Pennell unì la passione per il disegno a quella per i viaggi, recandosi a più riprese nel Vecchio Continente per rappresentare i paesaggi e i monumenti europei; ci interessa rispolverare la sua memoria in quanto, nel corso delle sue scorribande in Italia, Pennell ebbe occasione di visitare per ben due volte Barga, di cui ci ha lasciato non solo alcune immagini ma anche una vivida descrizione.

Pennell, nato nel 1857 a Philadelphia, si recò per la prima volta in Toscana nel 1883; in tasca, un contratto siglato con la rivista “Century” per realizzare dodici incisioni a corredo di alcuni articoli di W. D. Howells, già console americano a Venezia. Il lavoro lo condusse a soggiornare a lungo a Firenze che in quel periodo, da tappa obbligata del grand tour, era stata promossa a dimora permanente dell’alta società angloamericana: una cerchia ristretta di scrittori, critici, pittori, intellettuali per i quali la bellezza del luogo era fonte rigeneratrice di un’ampia produzione letteraria, poetica, artistica. Uno dei personaggi con cui Pennell strinse maggiori legami fu Vernon Lee, pseudonimo sotto cui si celava la romanziera britannica Violet Paget (1856-1935), autrice di un cospicuo numero di volumi in lingua inglese sulle tradizioni, la favolistica e il folklore toscano. Tra Lee e Pennell si creò un sodalizio intellettuale, e il pittore del Nuovo Mondo fu incaricato di illustrare alcuni articoli firmati dalla scrittrice del Vecchio.

Uno di questi pezzi trattava di una breve gita che la Lee fece in provincia di Lucca e che toccò anche Barga. In realtà Vernon Lee e Joseph Pennell si recarono nella cittadina in due momenti diversi: sappiamo che l’artista vi andò in un secondo momento, in occasione dell’Ascensione del 1883, con lo scopo di illustrare l’articolo già scritto; possiamo dunque dedurre che Vernon Lee vi arrivò nel settembre 1882, poiché la sua gita in Lucchesia coincise con la festività di Santa Croce.

Il ricordo di Barga che proponiamo è quello di Vernon Lee; fu pubblicato sul giornale “The magazine of art” del 1884 all’interno dell’articolo “North tuscan notes”, con a corredo i disegni realizzati da Pennell a penna e inchiostro su traccia iniziale a matita nera. La scrittrice rimase a Barga una giornata, visitando in centro storico il Duomo e la chiesa di Santa Elisabetta e, fuori dal nucleo urbano, la chiesa di San Francesco. La Lee racconta la cittadina con pennellate suggestive e romantiche, soffermandosi sulle impressioni sortite dall’abitato e dalle chiese (1):

Barga è una piccola ma molto antica cittadina cattedrale, a circa 40 chilometri a nord ovest di Lucca, costruita in una cornice degli Appennini che sembrano pensati come un’alta parentesi sovrastante la Garfagnana, l’ampia valle dell’Alto Serchio che Ariosto un tempo governò per il Duca di Ferrara. Tra le innumerevoli piccole repubbliche sorte dai villaggi latini nell’Alto Medioevo, Barga, che ebbe una certa importanza militare al tempo degli Ottoni e degli Enrici, fu così per dire “bloccata” dalla sua posizione remota, dimenticata dalle maree della storia il cui lento corso ha fatto ingrandire le città; è oggi all’incirca delle stesse dimensioni che aveva nell’XI secolo. Ma il singolare fatto che la piccola cittadina montana fosse un angolo del territorio fiorentino (come possa essere fiorentina, non lo so) (2) chiuso tra gli stati di Lucca, Modena e Massa Carrara, diede incredibilmente a questo paese sconosciuto la possibilità di sopravvivere: le principali famiglie del luogo ammassarono somme considerevoli gestendo magazzini e commerciando di contrabbando con gli stati adiacenti. Così la gente di Barga, dimenticata dal mondo, fu comunque capace di costruirsi palazzi non meno belli di quelli di Lucca e Firenze, e all’inizio del XVI secolo, invitò alcuni membri della famiglia dei Della Robbia a lavorare qui per le proprie chiese. Negli ultimi cinquant’anni del contrabbando non è rimasta che una certa prodezza militare di stampo medievale, e Barga è oggi in mano ai piccoli artigiani e a pochi proprietari terrieri di castagneti e vigneti confinanti.

È una città murata, circondata da splendidi platani e distesa lungo la sommità della collina; mi sembrò una Perugia più piccola e raccolta, sul suo altopiano circondato da speroni collinari e da gole splendenti di verde che si digradano in una larga vallata, chiusa da un anfiteatro di montagne molto più forti e imponenti di quelle umbre. Come Perugia, ha strade ripide, lunghe e accidentate rampe di scale tra scure case senza dipinture, tortuosi vicoli sotto nere volte, alte case di pietre grossolanamente squadrate, stemmi e uncini dove appendere tappeti, lanterne e torce; alzando gli occhi si vedono sempre alle finestre, coltivati dentro a stoviglie rotte, fiori e piante; ad ogni piè sospinto a dar luce ci sono piante rampicanti su qualche scuro e severo muro, o qualche rustico balcone affollato da girasoli e pomodori.

Il Duomo si innalza in cima alla cittadina, su un’ampia e desolata terrazza erbosa, circondata da un vero e proprio mare di montagne; in un angolo, con galli e galline che zampettano su e giù, si trova una vecchia capanna di legno, tutta decorata con scusi araldici di pietra, marmo e maiolica appartenenti a vari podestà di Barga. Di fronte, circondato da erbacce, un accesso murato alla chiesa, sorvegliato ad ogni lato da un piccolo cavaliere in armatura, come quello con Rolando e Oliviero a Verona (3). Il Duomo, costruito agli inizi dell’XI secolo dai Longobardi che hanno scolpito i loro misteriosi monogrammi su una pietra vicino la porta, è in qualche modo un primo e rude schizzo delle cattedrali di Lucca e Pisa; un’opera mancata e grezza, con qua e là qualche grottesca decorazione e qualche delicata incisione scolpite nella nuda pietra. Anche l’interno è rozzo, con enormi colonne e muri dipinti semplicemente in bianco e nero, ad imitazione delle decorazioni marmoree di area pisana. C’è un primo tentativo architettonico che è un precoce ed interessante esempio della scultura pisana culminata col lavoro di Nicola Pisano: un pulpito, di primitivo stile Pisano-Longobardo, probabilmente di qualche allievo di Biduino (4). È una tribuna quadrata, circondata da una banda di altorilievi dei Re Magi e della nascita di Giovanni Battista e da un bordo smaltato in blu e oro, che si appoggia su quattro colonne di breccia rossa, con tre capitelli rielaborati e uno originale che riporta una specie di incubo di strani mostri apocalittici, tra i quali un grasso bue, sollevato in posa da dandy col ventre protuberante sulle zampe posteriori, le ali che sbattono sulle spalle come risvolti di una giacca, il muso sollevato con mite autosufficienza, gli zoccoli anteriori che penzolano con la grazia moralistica di un salotto esteta; complessivamente, la più buffa bestia che si possa immaginare, specialmente in compagnia con i misteriosi leoni e le aquile della Rivelazione. Questo capitello è, si può dire, il mistico sogno grottesco dell’epoca buia; la parte in basso è di certo il brutto sogno di quell’epoca: alle basi delle colonne un uomo disteso affonda un coltello nelle fauci di un leone seduto sul suo petto, un coccodrillo divora una tigre, e un grasso e barbuto folletto accovacciato è piegato sotto una di esse. Lì accanto si innalza un recinto, che corre come un parapetto che lo separa dal corpo della chiesa – è in breccia rossa, con a lato mosaici bianchi e neri, e un cornicione di fogliame nel quale si trova una fila di teste più grande al centro e che diminuisce spostandosi verso i lati. Due testine centrali, con filetti e ornamenti regi, sono legate da lunghe trecce di capelli; le altre sono barbute, tutte molto grezze, vacue e squadrate; ma nel mezzo ce n’è una obliqua che guarda di lato e che, a seconda del punto di vista da cui la osservi, può sembrare una testa di leone o un volto selvatico e semiumano, arrabbiato, minaccioso e in qualche modo con una magnifica intensità di fiera espressione; semplice, risultato di pochi tocchi, quasi vivo, criniera e baffi appena abbozzati, un capolavoro di terribile grottesco; è impossibile immaginare come sia finito tra le altre teste, come se un grande artista si fosse divertito a scolpirlo mentre gli altri scalpellinatori si erano allontanati.

A Barga c’è un buon numero di opere dei Della Robbia, anche se dei membri più recenti della famiglia: forse Andrea, e il giovane Luca. La tradizione dà ancora il nome di “Fornacetta” a un angolo dietro la città, in una gola sulla quale il Duomo e il suo campanile rimangono sospesi sul precipizio; la gente dice che i Della Robbia avevano sistemati i loro forni da quelle parti. Nella chiesa delle Monache c’è una larga terracotta d’altare in altorilievo, sfortunatamente molto colorata e, per di più, successivamente ridipinta con colori ad olio. È una bella composizione degli Apostoli (5) intorno alla tomba della Vergine Maria, che è piena di quei delicati gigli che solo i Della Robbia sapevano riprodurre, molto diversi dai fiori a cuffia degli altri artisti.

Dalla chiesa delle Monache scendemmo a San Francesco, chiesa abbandonata di una congregazione (6), attraverso un viottolo grossolanamente lastricato nei campi al di sotto della cittadina: siepi tagliate, muri coperti di edera, e vecchi alberi con enormi ghirlande pendenti di grappoli verdi su ogni lato (soggetto ideale dei Della Robbia), e ad ogni curva viste sulle verdi colline circostanti, bluastre nell’ombra, dorate e nebbiose nella luce. Il piccolo chiostro abbandonato (recintato da un tetto di legno poggiato su rudi pilastri longobardi, mura sporche e un insopportabile tanfo di umido ossario che risaliva dal pavimento terrigno e dalle tombe invase da erbacce), ci ha condotto al muro dov’è una curiosa e melanconica vestigia d’arte che porta il Rinascimento più vicino a noi: un pezzo d’altare dei Della Robbia , grezzo ma bello, con la Madonna assieme a San Sebastiano e San Rocco, e un panorama di Barga in lontananza; un lavoro non terminato, rimasto fermo solo al primo processo di cottura, non invetriato, abbandonato dall’artista e distrutto e fatto a pezzi dai passanti (7). Nella piccola e scura chiesa ci sono tre terrecotte colorate dei Della Robbia, ideate in modo troppo figurativo e con uno sgradevole ricordo di Botticelli e Lorenzo di Credi; ma alcune delle piccole figure di angeli e santi nella bianca cornice sono semplicemente deliziosi.

Vicino alla sgradevole pensione dove eravamo sistemati c’è una bella villa cadente convertita a filanda (8). Circa venti ragazze arrotolavano sui rocchetti dell’arcolaio la seta, che attraverso le finestre aperte luccicava come oro; intonavano uno di quegli strani e misteriosi canti contadini, alti, nasali, metallici, monotoni, piacevoli nel pomeriggio estivo come l’infaticabile canto della cicala.

Questo ricordo dai contorni romantici di Vernon Lee si rivela molto diverso di quello che Pennell diede alle stampe quasi mezzo secolo dopo: un testo molto più autentico e movimentato che proporremo la prossima volta.

(Fine prima parte)

(1) Nella descrizione di queste ultime e dei loro manufatti compie molti errori, non si sa se per scarsa conoscenza delle tradizioni cattoliche o se, più probabile, per la rapidità con cui visitò i luoghi e dové memorizzare le informazioni.

(2) Noi sappiamo che la comunità di Barga si diede volontariamente a Firenze nel 1332.

(3) Si tratta della porta che si apre sulla navata sinistra, oggi adornata dall’architrave di Biduino da Bidogno. Il resto della descrizione della chiesa è assai fedele all’aspetto odierno, ad eccezione di alcuni particolari.

(4) La Lee fa qualche errore nel descrivere il pulpito: confonde la Natività con la nascita del Battista, non pare in grado di interpretare la simbologia, come ben si vede nel caso degli evangelisti.

(5) In realtà non sono gli Apostoli bensì i santi Tommaso, Giovanni Battista, Elisabetta d’Ungheria, Francesco d’Assisi, Antonio da Padova e Michele Arcangelo.

(6) Il convento francescano, soppresso in epoca napoleonica, tornò in uso in coincidenza con l’apertura dell’ospedale, quando vi furono richiamati dei Cappuccini nel 1860 circa.

(7) Si tratta della terracotta che oggi orna la cappella del Santissimo Sacramento in Duomo; qui fu portata nel 1936 durante la campagna dei restauri.

(8) La pensione è quella di Villa Carrara (o Villa Libano), cui era annessa una filanda per la trattura della seta, funzionante fino alla fine dell’800. La lavorazione della seta non traspare chiaramente dall’articolo.

L’immagine principale ritrae il centro visto dalla zona di Fontanamaggio; fa capolino la cima del campanile del Duomo, ancora coperta a tetto. Le altre rappresentano via del Pretorio “the main street of Barga” e due decorazioni all’interno del Duomo.

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Commenti

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  1. grazie per questo contributo nella storia di questa grande scrittrice e pensatrice a cui siamo tanto legati! a Firenze un nuovo convegno su di lei in Maggio 2019

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