“Per un giornalismo corretto”

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Stefano Elmi intervista per la sua tesi Christian Elia, inviato in Medio Oriente, Balcani, Nord Africa per Peacereporter.
Come ho già detto ai suoi colleghi vorrei andare subito al centro della questione. Ovvero sul problema etico che questa professione svela.Ho trovato su il libro di Philip Knigthley, Il dio della guerra, la descrizione di questo episodio che racconta la vicenda di un monaco buddista che si da fuoco in mezzo a una piazza di Saigon nel periodo della guerra del Vietnam. A tale episodio assistette un giovane reporter, Peter Arnett, il quale successivamente racconterà:– Avrei potuto impedire quella auto immolazione precipitandomi verso di lui sferrando un calcio alla fiasca della benzina. Come essere umano avrei voluto farlo, come cronista non potei –Tutto ciò apre una serie di quesiti importanti circa l’etica professionale, ma secondo lei il ruolo del reporter quale deve essere? Deve essere quello di formare un’opinione pubblica oppure essere solamente un testimone passivo, o la faccenda è più complessa?Ecco, la faccenda è dannatamente più complessa. L’episodio di Arnett è limite, quasi mai in una zona di conflitto ‘moderno’ si potrebbe intervenire direttamente per salvare una vita. Qualora dovessi scegliere, butterei in terra penna, taccuino e quant’altro e mi renderei utile. Senza alcuna esitazione. Molto più spesso, invece, si assiste impotenti a massacri ignobili, che hanno nove volte su dieci per vittime i civili. Personalmente cosa la spinge ad andare in zone di guerra o comunque di crisi? e come coniuga questo suo spirito con la necessità, a volte brutale, di “fare notizia”?Ho sempre fortemente voluto fare il giornalista. Nel 1996, a venti anni, mi sono trovato in Albania, durante la crisi per il crollo delle piramidi finanziarie. Davanti a quell’esodo biblico ho ritenuto che il genere di giornalismo che m’interessava per davvero era quello sul campo, che raccontava le mille storie che finiscono nella Storia. Mi sento utile, perché ritengo con il mio lavoro di denunciare come le guerre nascondano sempre interessi innominabili e come vengano combattute sempre sulla pelle dei civili. Per il resto, nel mio caso specifico, raramente si ha necessità di ‘fare notizia’, in quanto la guerra è drammatica di suo. Secondo lei l’autocensura è peggio della censura?Assolutamente sì. Ed è diventata il problema più grande del giornalismo contemporaneo. Dispacci, di Michael Herr, è il miglior libro scritto sul Vietnam. Eppure, secondo i canoni attuali, Herr era un embedded. Il problema non è mai nella forma, ma nel contenuto. Herr non aveva lo scopo d’ingraziarsi nessuno o di sostenere una politica. Raccontava fatti, anche tra i militari.Non essendomici mai trovato vorrei capire come si vive, professionalmente e non in una zona di guerra. Insomma come si vive in un posto dove le certezze, che in questa parte del mondo diamo per scontate e non ci facciamo più caso, in altre parti invece vengono meno. Quale è l’episodio in cui ha avuto più paura?Da lontano la guerra sembra un fattore incontrollabile. Invece, anche in assenza di certezze, esistono delle regole, dettate dal buon senso e dall’esperienza. In primis è fondamentale non avere atteggiamenti ambigui e non presentarsi al seguito di una parte in causa. Qualcuno, sul fronte, si sente tutelato se ha qualcuno armato con sé. Per me vale esattamente il contrario. Mi metto al livello delle persone comuni e, alla fine, è la migliore garanzia. Occupandomi di un certo numero di paesi, poi, ho sviluppato negli anni una rete di contatti con persone delle quali mi fido molto. E anche questo è importante. Poi, alla fine, una disgrazia può accadere sempre. E’ la vita. Rispetto ai singoli episodi sono più di uno, ma sicuramente il bombardamento è sempre una condizione particolare, perché si tende a sentirsi davvero impotenti rispetto al fato: Gaza, Iraq o Libano non fa differenza, la sensazione è la stessa.Quale è la preparazione più adeguata, se vi è, per recarsi in una zona di tensioni? Letture, conoscenze personali, capacità d’adattamento, improvvisazione, che ruolo giocano questi elementi? Mah, un po’ di tutto. Studiare un paese, per me, è fondamentale. Poi però bisogna avere l’intelligenza di sapersi mettere in gioco, senza farsi soffocare dalle ‘presunte certezze’. L’improvvisazione, in certe situazioni, meglio lasciarla da parte. Anche vero, però, che a volte bisogna sapersi adattare, decidendo volta per volta.Quale è il suo parere su i corsi di giornalismo? Non ne ho grande stima. Credo che il giornalismo sia un mestiere che s’impara sul campo e in redazione. Comunque oramai sembra essere l’unico modo per accedere alla professione, è come se l’Ordine volesse tutelare se stesso. Capisco i ragazzi che sono costretti a passare dalle scuole.Quale è la situazione dell’informazione oggi, specie con l’avvento delle nuove tecnologie? E per quanto riguarda il mestiere del reporter di guerra quali sono, secondo lei, le prospettive future?Le nuove tecnologie sono una rivoluzione alla quale tutti i reporter si stanno adattando piuttosto in fretta. Il rischio del citizen journalism, però, è quello della verifica delle fonti. Il rischio di internet è quello di sommergere il lettore di notizie contrastanti e non verificate. Il sistema delle testate classiche e il giornalismo di nuova generazione, in un rapporto di bilanciamento dei poteri, potrebbero rappresentare il futuro di questa professione. O almeno lo spero.Di recente ho trovato nell’introduzione di Imperium di Ryszard Kapuscinski due righe che mi hanno colpito e che secondo me sono significative riguardo alla cosiddetta “obiettività dell’informazione”. Sono queste:– Il presente libro non è una storia della Russia e dell’ex-Urss, né un resoconto dell’ascesa e caduta del comunismo in questo stato e neanche un manualistico concentrato di conoscenza sull’Impero. E’ la mia relazione personale di viaggi compiuti nelle sconfinate distese di questo paese (o meglio di questa parte del mondo), cercando sempre di arrivare fin dove me lo consentivano il tempo, le forze e le possibilità –Niente di più semplice per dire che queste sono le cose come le ha viste lui e quindi anche un atto di fiducia verso il lettore. Infatti sarà poi quest’ultimo ad elaborarle con le sue conoscenze e le sue sensibilità, per farle proprie o meno.Insomma, concludendo, chi è il buon reporter? Io non credo al giornalismo neutro. Un giornalista è un essere umano, con le sue idee, i suoi sentimenti e la sua formazione culturale. Esistono solo giornalisti corretti e giornalisti scorretti. Il giornalista corretto è colui che racconta tutto, anche quello che non gli fa piacere.

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