“Il reporter di guerra non esiste”. Intervista con Bernardo Valli

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Stefano Elmi, studente barghigiano del corso di laurea in Media e Giornalismo dell’Università di Firenze, ha realizzato una interessante tesi dal titolo “Reporter di guerra: l’evoluzione storica di una professione”. Il suo risulta davvero un lavoro ben fatto ed interesante che riporta anche una serie di interviste realizzate con alcuni noti reporter di guerra: Bernardo Valli, Frank Viviano, Christian Elia e Umberto Cecchi.Grazie alla disponibilità di Stefano, che ringraziamo per la collaborazione, cominciamo oggi la pubblicazione di queste interviste. La prima è è quella realizzata con il giornalista di Repubblica, Bernardo Valli.

“Il reporter di guerra non esiste”
intervista a Bernardo Valli
(La Repubblica)

Stefano Elmi – Vorrei andare subito al nocciolo della questione. Ho trovato su il libro di Philip Knigthley, Il dio della guerra, la descrizione di questo episodio, forse limite, che racconta la vicenda di un monaco buddista che si da fuoco in mezzo a una piazza di Saigon nel periodo della guerra del Vietnam. A tale episodio assistette un giovane reporter, Peter Arnett, il quale successivamente racconterà:
– Avrei potuto impedire quella auto immolazione precipitandomi verso di lui sferrando un calcio alla fiasca della benzina. Come essere umano avrei voluto farlo, come cronista non potei –
Tutto ciò apre una serie di quesiti molto importanti circa l’etica professionale, il cinismo, se non proprio sull’umanità della persona stessa, ma secondo lei il ruolo del reporter quale deve essere? Deve essere quello di partecipare, quindi cercare di sensibilizzare un’opinione pubblica oppure registrare i fatti senza porre commenti? o la faccenda è più complessa?
Bernardo Valli – Innanzitutto mi permetto di fare una precisazione. Per me la professione del “reporter di guerra” non esiste, nel senso che un giornalista è chiamato a seguire diversi avvenimenti, e tra questi ce ne possono essere di rischiosi. Magari alcuni di questi possono svolgersi in paesi cosiddetti “a rischio”, ma non più a rischio, per il giornalista che li segue, del mestiere di un operaio edile su un’impalcatura o tanti altri mestieri manuali o di ricerca scientifica.
Nella mia lunga vita professionale ho raccontato più o meno tutti i conflitti verificatisi nell’ultimo mezzo secolo ma ho seguito molte più situazioni politiche diciamo incruente. Dal maoismo, al boom giapponese, alla decolonizzazione (non sempre violenta), alle crisi dell’Europa orientale nell’epoca sovietica, alla caduta del muro di Berlino e della successiva riunificazione tedesca, e a decine di elezioni in Francia, Inghilterra, Germania e cosi via. Senza contare che da giovane cronista ho percorso l’Italia per raccontare fatti di mafia, processi, delitti o sciagure. Personalmente quindi non mi considero un “reporter di guerra” ma un reporter che ha raccontato anche guerre.
Per tornare all’episodio descritto, anche io come Peter Arnett ho visto dei monaci buddisti bruciare a Saigon, e se non ho cercato di evitare che si immolassero era perché c’era in loro la volontà di compiere gesti estremamente ricchi di significati politici. Gesti che andavano rispettati. Inoltre non era praticamente facile intervenire.
E’ vero che il giornalista è di per sé un testimone, ma è anche un uomo e quindi agisce come tale. Può essere vigliaccio, coraggioso, avaro, generoso, stupido o intelligente.
Il cronista deve essere onesto e raccontare i fatti cosi come li vede. L’obiettività consiste nel rispettare i fatti ma non esclude che il cronista li interpreti e nell’interpretarli lasci inevitabilmente emergere quel che pensa. L’onestà consiste nel correggere, aggiornare, i fatti raccontati seguendo la loro evoluzione. Il giornalista è lo storico della verità del momento, le situazioni cambiano, le prime interpretazioni possono rivelarsi sbagliate, o incomplete, possono rivelarsi via via diverse dal come erano state viste in un primo tempo.
Il giornalismo è un artigianato. Non è ovviamente una scienza esatta e non è neppure un’arte. Ha come compito principale quello d’informare. Ha una funzione pratica come quella del falegname che costruisce una seggiola, può capitare che la seggiola finisca in un museo e diventi un oggetto prezioso, cosi il giornalismo può dare pagine in cui sono esposte profonde riflessioni, destinate a indirizzare l’opinione pubblica, e certi reportages possono assumere un valore letterario. Ma la funzione primordiale, ripeto è quella d’informare e senza informazione non c’ è democrazia.
SE – Quale è la preparazione più adeguata, se vi è, per un buon reporter?
BV – Prima di tutto un giornalista è uno che sa scrivere veloce, perché i ritmi della composizione di un giornale lo impongono. E’ uno capace di far arrivare l’articolo in tempo, che ha un certo dono della sintesi, che ha riflessi abbastanza pronti per afferrare il senso di un avvenimento, che ha una cultura generale abbastanza ampia per interpretare gli avvenimenti (se si occupa di politica). Un buon giornalista deve leggere molti buoni libri e studiare e ancora studiare.
Il termine giornalista indica una vasta gamma di persone, secondo il mio parere la distinzione avviene misurando l’attendibilità e il livello culturale non che la competenza sull’argomento trattato.
SE – Quale è la situazione generale dell’informazione oggi, specie con l’avvento delle nuove tecnologie?
BV – E’ indubbio che la televisione e internet hanno ridotto il ruolo della carta stampata, la cui struttura non è adeguata alla velocità delle odierne comunicazioni, ma sarà sempre presa a parametro di riferimento per la sua attendibilità.
Attendibilità che non è certo prerogativa invece del mondo di internet, con le sue centinaia di migliaia di fonti difficilmente verificabili.

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