Giovanni Pascoli. Meditazioni d’un Solitario italiano. Un paese donde si emigra un libro a cura di Marinella Mazzanti e Umberto Sereni

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L’ 11 marzo 1908 veniva a mancare Edmondo de Amicis. Conosciuto oggi dal grande pubblico soprattutto come l’autore del libro Cuore, fu anche un fecondo scrittore di resoconti di viaggi ed articoli riguardanti le realtà di nazioni e di città lontane, che suscitarono un fervido interesse da parte dei lettori del tempo assetati di conoscere mondi così diversi dalla realtà italiana.Edmondo De Amicis ricopriva il ruolo di corrispondente dall’Italia del giornale argentino «La Prensa», periodico di grande notorietà molto diffuso nella numerosa comunità italiana del paese sud-americano e la sua scomparsa lasciava un grande vuoto che avrebbe potuto essere colmato solo da una voce altrettanto autorevole e popolare. Giovanni Pascoli fu chiamato a sostituirlo; l’annuncio di questa scelta, come si legge nella presentazione ai lettori, fu accompagnato da un lusinghiero ritratto della sua cultura accademica ma soprattutto della sua squisita sensibilità: uomo capace di cogliere la poesia della natura, delle voci sommesse dell’anima e della creazione con un acuto sentimento del dolore umano addolcito dall’amore e dalla pietà.
Il 22 agosto di quell’anno, il poeta iniziava la collaborazione con il giornale con un articolo dal titolo Meditazioni d’un Solitario italiano. Un paese donde si emigra.
Nell’archivio di Casa Pascoli, si conservano le carte autografe degli abbozzi e della versione finale: 14 carte di cui 9 che accolgono la stesura definitiva datata 10 luglio 1908.
Questa prosa in Argentina riscosse un notevole successo ma in Italia è rimasta poco conosciuta fino agli anni ’90 quando è stata pubblicata in saggi di Umberto Sereni e Gian Luigi Ruggio.[1]
Nell’articolo, con la capacità visionaria dei poeti, Giovanni Pascoli proietta sul paesaggio che gli si apre dall’altana della sua casa di Castelvecchio la geografia fisica, sociale e umana dei paesi meta degli emigranti della valle del Serchio.
Gli anni in cui Giovanni Pascoli visse a Castelvecchio coincidono infatti con il periodo in cui il fenomeno migratorio italiano registrò la massima intensità; fra le realtà territoriali in cui il flusso fu più consistente si annovera la provincia di Lucca e in particolare la Valle del Serchio.
In quegli anni il tema dell’emigrazione era trattato o con indifferenza, perché considerato un fenomeno di cui vergognarsi, in quanto sintomatico di un’Italia povera che non riusciva a garantire in patria una vita dignitosa ai suoi cittadini, o con il sentimento pietistico e lacrimevole di tanta letteratura di fine ‘800. Prima della sua venuta in valle del Serchio, Pascoli non aveva alcuna conoscenza diretta di emigranti; a Castelveccchio invece entrò in contatto con la famiglia dello Zì Meo ed altre, tutte toccate dall’esperienza dell’emigrazione. Il poeta cercò di conoscere a fondo le motivazioni della scelta di emigrare, comprese ben presto come nella valle, in genere, l’emigrazione fosse temporanea, ovvero finalizzata ad un miglioramento della situazione economica per poi far ritorno in patria e qui contribuire con i sudati risparmi allo sviluppo del paese da un punto di vista economico e sociale. Questa lettura ribaltò completamente la prospettiva del fenomeno migratorio: non più esodo di disperati ma coraggiosa scelta di vita per migliorare, tutto ciò contribuiva a dare dignità ed orgoglio agli emigranti.
Nella prosa Meditazioni d’un Solitario italiano. Un paese donde si emigra, Giovanni Pascoli vede nella valle del Serchio un’ “America abbreviata”, una terra riplasmata dal lavoro dell’uomo, che fatica lavorando ma che opera in armonia con la natura, una dimensione del vivere in cui il lavoro, sia quello pionieristico degli primi emigranti nelle sterminate praterie e nelle città industriali del nuovo mondo, che quello di chi rimane nella sua terra e faticosamente si guadagna da vivere, coltivando con tenacia piccoli appezzamenti di terreno, assume la stessa dignità e sacralità.
Il “paesaggio” che il poeta ci presenta non è solo una descrizione esteriore ma uno studio profondo della vita umana; un manifesto politico e sociale sul valore della libertà conquistata tramite il lavoro.
Per ricordare le vicende di coloro che sono emigrati dalla valle del Serchio e tra questi in particolare chi ha messo radici in terre lontane, la prosa, a distanza di cento anni dalla sua prima pubblicazione, viene presentata per la prima volta anche in lingua inglese (traduzione di Anne Capanni).
Le immagini degli autografi dello scritto pascoliano, dell’articolo sul giornale argentino, le fotografie scattate dal poeta stesso e altre immagini provenienti dall’Archivio della Fondazione Paolo Cresci per la storia dell’emigrazione italiana, accompagnano la lettura di una delle più toccanti prose di Giovanni Pascoli.


[1] Su «La Prensa» apparve con il titolo: G. Pascoli, Meditaciones de un solitario italiano. Un pais del cual se emigra; l’articolo fu inserto nell’opuscolo Giovanni Pascoli pubblicato da Zanichelli nell’ottobre del 1912, in occasione del trasferimento della salma del poeta dal cimitero di Barga alla cappella della Casa di Castelvecchio; fu pubblicato anche da G. Rosadi nel testo che conteneva la sua commemorazione del poeta, tenuta a Barga nel 1912 e nel volume Toscana della serie “Italia”, curato da Luigi Parpagliolo nel 1932. È stato ripreso da U. Sereni, Il poeta legislatore. Pascoli a Barga (1895-1912), Barga, 1995 e da G.L. Ruggio, Castelvecchio Pascoli, La casa del poeta. Ricordi e presenze, Barga, 1997.

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