Come nacque la poesia Vecchia Barga di Mario Mazzoni (1898-1940)

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Tutti i barghigiani e non solo conoscono la poesia “Vecchia Barga” di Mario Mazzoni, pubblicata nel suo libro “Valleverde”, edito per la prima volta nel 1932, poi nel 1990 a cura del Circolo Cesare Biondi di Barga. Per far capire cosa volle dire per Barga la pubblicazione del libro “Valleverde”, ricorriamo alle parole che il prof. Umberto Sereni ebbe a pronunciare in occasione della presentazione della ristampa in quel 1990:

“Valleverde è una pietra miliare, un volume fondamentale per capire l’appartenenza a una civiltà che poneva a suoi valori il bello, il buono, il giusto e riconosceva nell’arte, nella cultura, gli strumenti migliori per l’effettivo progresso del consorzio umano… prima che il sole se ne andasse dietro alle Apuane”.

Come detto, all’interno di questo libro troviamo “Vecchia Barga”, poesia che ebbe due versioni, concettualmente uguali e solo diverse in alcuni passaggi, un po’ come oggi usa per certe canzoni che dopo qualche anno, seppur subito riconoscibili, capiamo che in qualcosa sono variate, a volte in meglio, così come accadde per la stessa poesia “Vecchia Barga”. Come vedremo però, la poesia di cui stiamo parlando, ebbe una particolare genesi, frutto del grande amore che Mazzoni nutriva per Barga, una sorta d’intuizione che gli sorse spontanea nel redigere una lettera che troviamo pubblicata sul giornale barghigiano La Corsonna, n. 20, del 19 ottobre 1919 e che ripubblicheremo qui dopo aver descritto, come da quella folgorazione si arrivò al primo e secondo testo della “Vecchia Barga”.

Prima di andare avanti alla riscoperta della genesi di questa poesia, penso occorra far capire un poco chi sia stato Mario Mazzoni. Intanto diciamo che nacque a Fornaci di Barga il 13 gennaio 1898 da Giovanni e Isolina Riani. Secondogenito, ebbe una sorella, Amalia, nata tredici anni prima. La famiglia, di condizione agiata, abitava in via della Repubblica a Fornaci di Barga, nella villa che è quasi di fronte all’attuale parcheggio intitolato al dott. Piero Stefani.

Studente diligente, dopo le superiori, s’iscrisse all’università, che però dovette interrompere per il richiamo alle armi durante la Prima Guerra Mondiale. Sottotenente della 373a compagnia mitraglieri del 72° Reggimento Fanteria, il 21 dicembre 1917 sarà ferito a una gamba sul Monte Sprunch (Asiago) e ricoverato all’ospedale di Prato. Il ritorno a casa avverrà ai primi del 1920, dopo aver subito altra ferita per lo slittamento di un camion.

Tornato, riprende gli studi universitari, laureandosi nel 1922 in Lettere a Bologna e iniziando a vivere il mondo della scuola e la cultura in genere, pubblicando articoli anche su La Corsonna, diretta dagli amici Alfredo e Italo Stefani. Entra in contatto e stringe amicizie con varie personalità della cultura provinciale, come Lorenzo Viani, Krimer, Gabriele Briganti, Amos Parducci. A Barga particolarmente calda e proficua è l’amicizia che lo legherà ad Alfredo Stefani (1883-1929), la grande anima ispiratrice di buona parte della vita barghigiana tra le due guerre, e con il quale Mazzoni collaborerà ai due lavori teatrali: La Vecchia Barga e La Nuova Barga, oltre, come detto, al giornale La Corsonna, che Alfredo ha fondato nel 1903 con il fratello Italo (1885-1965).

Mazzoni scriverà anche una commedia tutta sua: Gallina Nuova nel Pollaio, data con successo al salone del caffè Capretz, perché il teatro è chiuso per inagibilità; poi al teatro Puccini di Fornaci. La Compagnia Drammatica che ha allestito la commedia è quella del cav. Carlo Marazzini e in entrambe le occasioni attori e Autore più volte devono rispondere alle chiamate alla ribalta.

Con spirito d’avventura emigra in Brasile, da cui torna per riprendere la carriera scolastica, che lo vedrà insegnante a Lussimpiccolo, poi nella città di Guatemala, incaricato dalla Direzione Generale degli Italiani all’Estero di insegnare Lettere Italiane presso l’Accademia di Lingue nell’Istituto Nazionale di Varones, nella cui città troverà la morte il 9 gennaio 1940 a soli quarantadue anni.

Tornando alla scoperta della genesi della poesia “Vecchia Barga”, intanto vediamo e leggiamo la seconda e definitiva stesura:

VECCHIA BARGA

Silenzio … Ascoltiamo il mormorio
dell’erma sera, che soave ascende
verso l’Aringo che s’inciela e splende
negli orizzonti di viola e d’oro.

Ascoltiamo: anche l’ombre ànno una loro
voce, che pare un serico fruscio.
Dolce per le callaie fonde in quest’ora
blanda indugiarsi, mentre le Apuane
piovono luce che i castagni indora
al monte e al piano, e tutte le campane,
alte sopra la valle ampia e sonora,
cantan vicino, cantano lontane.

Le campane dell’ora vespertina
dondolano nel cielo, a fiotti a onde,
tinnule voci d’oro e piane e fonde,
cullan la vecchia Barga alta sul poggio,
che nella gloria del tramonto roggio
si fa dell’ombre una densa cortina.
Oh attardiamoci ancora un po’: a momenti
Il campanone del sonno, con l’ore
Ci manderà i rintocchi suadenti.
Ma chi più ascolta il verbo ammonitore?
La vecchia Barga à i focolari spenti,
la vecchia Barga lentamente muore.

O vecchia Barga, mentre il tempo sgrana,
per vie che san di muschio e di convento,
il suo rosario, placido a rilento,
al ritmo del tuo cheto agonizzare,
si sogna di lasciarsi addormentare
con quest’anima tua che s’allontana.
Ma i sogni sono un filtro di malia
Che fascia e ovatta lo spirito insonne,
come la notte le tue case, o mia
città fiorita d’occhi di madonne,
nostalgica città di cortesia,
di vecchie usanze e di soavi donne.

Oh, vivi chiusa nelle rimembranze,
vecchia città che so tutta a memoria,
vecchia città che sai tutta la storia
de’ miei dieci e de’ miei venticinque anni,
che m’ài visto mutar d’età e di panni
come d’illusioni e di speranze …
Urge l’ora e sospinge nel tumulto,
lontano dal tuo blando romitorio,
ma l’anima à per te sempre un sussulto
e il tuo ricordo, come un ostensorio,
splende alla cima dei pensieri e occulto
raggia nel cuore, come in un ciborio.

Addio, canzone del mio cuore anelo.
Mentre ch’io lungi me n’andrò ramingo,
custode al sogno che nel cuor io celo,
resta tu qui, sul solitario Aringo,
sotto questo felice arco di cielo,
dove un dì poserò pago e solingo.

Questa poesia, il canto di Barga, è la definitiva stesura edita nel libro “Valleverde” del 1932, la quale, come accennato, ebbe una precedente versione, diversa un poco nelle parole ma non nel concetto, che eseguì nel 1924 per la commedia di Alfredo Stefani “La Vecchia Barga”. La declamazione fu prevista a un certo momento della rappresentazione avvenuta in quello stesso anno, quando sul palco del Teatro Differenti di Barga entrò il poeta, Mario Mazzoni, che declamandola condensava nelle alate parole tutto lo spirito dell’opera, concepita come uno sguardo sulle perdute grandezze di Barga. Della prima stesura, per darne un’idea, riportiamo il primo brano:

Silenzio …: ascoltiamo il mormorio
che fan l’ombre che salgon lentamente
verso l’Aringo, che s’inciela ardente
nelli orizzonti di viola e d’oro:
ascoltiamo, anche l’ombre ànno una loro
voce che pare un serico fruscio.
dolce per le carraie fonde in quest’ora
blanda indugiarsi, mentre le Apuane
piovono luce che i castagni indora
al monte e al piano e tutte le campane,
alte sopra la valle ampia e sonora,
cantan vicine, cantano lontane.

……………….

Eccoci ora a riscoprire dove sta la genesi dell’idea poetica di mettere in rima un sentimento così forte e presente in tutti i barghigiani di ieri ma anche di oggi, che poi divenne la poesia “Vecchia Barga”. Si tratta di una lettera che Mario Mazzoni scrisse da Mantova al giornale La Corsonna e che questa pubblicò sul n. 20 dell’ottobre 1919. Inizia con un “A te vecchio torrente” e allora va detto per capire lo scritto che il giornale La Corsonna aveva preso nome proprio da quello del torrente che solca a nord il suo territorio, dal nome, appunto, Corsonna:

Cara Corsonna, ti mando una

DICHIARAZIONE D’AMORE

a te vecchio torrente che col tue tenue ciangottio culli la sublime indolenza della Barga nostalgica, e a l’Altra che di te trasfonde e modula nel gemito dei torchi la perenne incantagione e la musica maliarda.

Già nella lontananza, io mi indugio a centellinare la mia malinconia dolce amara, mentre il sole si attarda ai confini del cielo, come ad assaporare la sua lenta agonia; e questi vesperi accesi di fin di settembre mi danno uno strano sentore di lacrime tranghiottite: (per che, in fondo in fondo, nel cuore mi duole qualcosa di bambino, quando ai tocchi del Duomo, a l’Ave Maria, mi spuntavano i lucciconi.)

È l’ora di Barga, l’ora in cui i vecchi muri screpolati ànno una voce, per chi l’intende, in cui l’antico campanile si trasfigura nell’apoteosi dell’ultima luce: ed io mi attarderei volentieri per le callaie semibuie, ad ascoltare il fruscio delle ombre, che salgono lentamente a l’aringo imparadisato.

Per le callaie semibuie, a ricercare la Barga vecchia, la Barga d’un tempo, la mia Barga, tebaide d’anime e di sogni.
O giù fra le selve e, per la via del campo santo, ad aspettare che il campanone dell’or di notte dia il buon riposo a quelli di qua su e a quelli di là giù. E nessun’altra voce, perché la mia Barga, quella che amo, è tutta di silenzio e d’ombra.

Su la via di Catagnana e sul Fosso, ci son troppi cinguettii, ci son troppi colori: le ragazze di Barga non son più quelle di una volta che parlavano sommesso a fior di labbra, con nella voce un’inflessione lene e musicale, che aveva uno strano sapore arcaico di Dugento francescano.

Voi soltanto vecchi muri, che in ogni crepaccio chiudete una memoria, voi sole, erte callaie, che in ogni pietra avete una nostalgia, e tu, solitario Aringo, che a ogni plenilunio illumini un sogno, e voi silenziosi viottoli, che ad ogni passo ridestate un pensiero; voi soli serbate ancora questo sublime anacronismo, che si ostina nel fondo dell’anima mia: e a voi la mia dichiarazione d’amore.

Povera dichiarazione d’amore ch’è andata a finire in un mortorio.
Ed io la lascio per te, sole di Barga, che tramonti da le Apuane e indori le cime dei castagneti, a monte e a valle; tu, forse, mi dici che “le dolci forme in vero non son passate via; ma siamo noi e ciò ch’è nostro, che cangiamo”; forse.

Mario Mazzoni, Mantova 26 settembre 1919.

Resta pensabile che Alfredo Stefani, anima sensibile, attenta e viepiù stimolante verso l’arte chi con lui entrava in contatto, quando lesse questa lettera, forse già preso dal progetto della commedia “La Vecchia Barga”, che nella trama ripercorre ciò che Barga fu e ora stava languendo in una profonda nostalgia del passato, forse, gli si accese una sorta di lampadina. Nei fatti, cogliendo in quelle parole la sintesi del lavoro che stava pensando, invogliando l’amico Mario Mazzoni, a dare a quei sentimenti esposti nella stessa lettera una forma poetica, cioè tradurre il tutto in una poesia. In effetti, troviamo nelle parole della lettera motivi propri della poesia “Vecchia Barga”, come l’idea del “campanone dell’or di notte” o “Barga tutta silenzio e d’ombra”, oppure il “solitario Aringo” o quel “sole di Barga, che tramonti da le Apuane e indori le cime dei castagneti, a monte e a valle”. Senza trascurare lo stesso concetto dello scritto, profondamente nostalgico per se stesso, in cui Mazzoni soffre al pari di Alfredo Stefani, di quell’ideale Barga che fu e ora langue nei ricordi, così entrando Mazzoni in sintonia con l’idea teatrale dello stesso Stefani.

Pier Giuliano Cecchi

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