Vittorio Capecchi, rastrellato ed internato. Ecco la sua storia

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((foto tratta dal sito www.peacelink.it)


Giornale di Barga del, forse, novembre 1964 o 1965

I rastrellati raccontano

Rastrellati e deportati in Germania

Vittorio Capecchi, nato a Barga il 5 luglio 1925, coniugato con Iva Del Checcolo, con figlio Paolo di anni 10. Abita a Barga in Via di Mezzo n. 3. Attualmente lavora nello stabilimento S.M.I. di Fornaci.

Quando il 12 settembre 1944 soldati tedeschi mi portarono via da Gragliana, frazione del Comune di Fabbriche di Vallico, avevo 19 anni, indossavo un paio di calzoni corti di cotone e zoccoli ai piedi. Con questi indumenti addosso, fin dalla prima notte, in un aula dell’edificio scolastico di Castelnuovo, poi alle Casermette di Bologna e nelle baracche nel campo di Fossoli vicino a Carpi di Modena, specie durante la notte soffersi tanto freddo.

Il campo di Fossoli era un centro di smistamento per gli ebrei. Di lì noi fummo avviati a Peschiera del Garda ove provvisoriamente ci accantonarono nella Fortezza, adibendoci a lavori di riparazione e di manutenzione lungo la linea ferroviaria.

Io appartenevo ad un folto gruppo che a Bologna era stato selezionato per essere avviato in Germania a lavorare. Nella maggioranza eravamo tutti giovani sui vent’anni, tra questi ricordo: Ferdinando Vergamini di Filecchio, Rolando Ghiloni, il povero Sergio Terigi, Ugo Nardi, residenti alla “Quercia”, Sergio Villani di Pedona, Renato Casali, attualmente emigrato a Melbourne, Berto Lazzerini di Fornaci, Alberto Cordati, Pietro Mori, Primo Zeppolini di Barga, di altri ora mi sfugge il nome.

In pochi giorni la fortezza si riempì di rastrellati e di detenuti prelevati dalle carceri. Vi erano uomini di oltre cinquant’anni e ragazzi come noi di Fornaci.

Uno di Fabbriche di Vallico non aveva ancora quindici anni, non l’ho mai visto piangere, e seppe salvarsi da furbo. Alcuni giorni dopo il nostro arrivo nel lager di Berlino, si presentarono ufficiali italiani a reclutare volontari per la repubblica di Mussolini. Pochi vi aderirono, fra questi il ragazzo di Fabbriche. Giunto in Italia fu inviato sul fronte della Garfagnana, partecipando all’offensiva di Natale 1944 assieme a reparti alpini della Divisione Monterosa. Nella ritirata egli si nascose in un grotto, di dove uscì per darsi prigioniero ai partigiani, i quali lo mandarono direttamente a casa. Queste notizie le appresi da lui a guerra finita il giorno in cui lo incontrai a Bolognana. Oh! Se anch’io avessi fatto come lui! Quanti dolori e quanti spaventi mi sarei risparmiato!

Ai destinati per la Germania i tedeschi a Bologna diedero una tuta blu e un apio di scarpette come quelle che adoperano i giocatori di tennis, una ciotola di bagalite e un cucchiaio.

Una mattina ai primi di ottobre ci ammassarono nella piazza d’armi della Fortezza, capimmo allora che nel corso della giornata saremmo partiti. Così fu. Prima di caricarci sui vagoni bestiame alla rinfusa, ci diedero una pagnotta e una scatoletta. Coloro che fungevano da interpreti ci dissero di farne caso, perché il viaggio sarebbe stato lungo e viveri non ne avrebbero più dati. Appena fummo tutti dentro nei vagoni, dal di fuori sprangarono le porte e, siccome eravamo in tanti e vi era poca aria, avemmo lì per lì la terribile impressione di morire asfissiati. Nel buio del vagone, in quel bailamme di imprecazioni, di pianti e di preghiere, una voce autorevole ci ordinò di stare zitti: – Non vi agitate, non urlate. Si ricompose tosto una certa calma solo interrotta adesso dai singhiozzi di qualche ragazzo che chiamava la mamma. Finalmente, come Dio volle, il fischio del treno diede il segnale di partenza ed il convoglio si mosse a passo d’uomo.

Non ricordo quanto tempo rimanemmo in quella tomba rotante sui binari. La poca aria ci aveva praticamente debilitati. Un po’ si dormiva, un po’ si vegliava sempre più intontiti. Quando la tradotta si fermava nelle stazioni, se sentivamo di fuori parlare italiano, allora quelli vicini ai finestrini inferriati si agitavano gridando: acqua, acqua, apriteci, apriteci.

Viaggiammo ancora una notte in quelle tristissime condizioni. Alla mattina il treno si fermò in una stazione. Stemmo in ascolto, ma questa volta dal di fuori non giunsero fino a noi suoni e parole della nostra lingua. Capimmo allora che avevamo varcato la frontiera. Poco dopo aprirono le porte e noi rotolammo giù nei binari, incapaci di reggerci in piedi. Eravamo ad Innsbruck. Sui monti aveva nevicato e l’aria era gelida. Con Villani e Terigi facemmo la coda ad una fontanella e dopo esserci a lungo abbeverati il freddo pungente ci risospinse nel vagone in attesa che ci chiamassero per l’appello.

Quelli che a Bologna si erano qualificati operai specialisti, in prevalenza meccanici, furono avviati si di una tradotta diretta a Vienna. Persi allora la compagnia di Sergio Villani, di Ugo Nardi, di Renato Casali. Cerchiamo di stare assieme, dissi al povero Terigi, che come me era giù di corda. Ci ridiedero viveri secchi che divorammo con poche boccate, tanto eravamo allupati. Risalimmo sui vagoni: cavalli 8 uomini 40, e le porte questa volta fino al termine del viaggio non vennero sprangate dal di fuori. Avevamo adesso più aria e, non essendo più in tanti, trovammo un certo conforto nello sdraiarci. Purtroppo il freddo era tale da non farci dormire.

Quando il treno non andò oltre, eravamo in una stazioncina nei dintorni di Berlino che vista di lì ci apparve una città immensa circondata da immensi boschi. Era di mattina e c’era la nebbia. Io avevo perduto la nozione del tempo. Era il 9 ottobre 1944. Avevo tanto freddo e molta fame. A questi tormenti, se ne aggiunse quasi subito un altro e più atroce: i bombardamenti a tappeto delle superfortezze volanti americane che ove passavano facevano casamicciola.

Nel chiedermi a Bologna che mestiere facevo, dissi ch’ero fornaio colla speranza di trovare un’occupazione che mi permettesse di sfamarmi. Ahimè! Di forni a Berlino non ne avevano affatto bisogno.

Con Terigi, Vergamini, Cordati, Mori, Zeppolini, ed altri del Comune fummo impiegati nella costruzione di rifugi antiaerei. Il luogo ove ogni mattina ci recavamo a lavorare era una vecchia fabbrica di birra che adesso trasformavano in uno stabilimento per la costruzione di pezzi di ricambio per carri armati. Sopra le terrazze dei capannoni rinforzate all’interno da colonne di cemento armato facevamo una gettata di calcestruzzo dello spessore di due metri mettendoci sopra un altro metro di sabbia. Per andare al lavoro, scortati nei primi tempi da soldati armati, prendevamo il treno sopraelevato che poi proseguiva sottoterra.

Berlino nell’ottobre 1944 era bombardata quasi tutti i giorni. La contraerea era insistente, ma i tedeschi ci tenevano abbada tanto nei lager che sui cantieri di lavoro, davano ancora la impressione che avrebbero vinto la guerra. Con noi erano duri, con i soldati italiani deportati dopo l’8 settembre 1943, ancora di più, “badogliani” li chiamavano con disprezzo. Spietati lo erano con gli ebrei, con russi e polacchi.

La fisonomia della città da un giorno all’altro cambiava i connotati. Dove prima c’erano palazzi alti diversi piani, giorni dopo vedevamo montagne di macerie. Dove c’era una piazza appariva una immensa voragine. Gruppi di sinistrati stazionavano in più punti della città in attesa che passassero quelli che andavano a distribuire il rancio gratis. Avevano espressioni spettrali.

La fame di quei giorni fa ancor oggi male soltanto a ricordarla, ed il freddo era atroce. A noi rastrellati il comando passava una modesta razione di tabacco r di questa ne facevamo cambio per procurarci qualche indumento pesante. L’unico del nostro gruppo che non riuscì mai a rinunciare al tabacco fu Pietro Mori, il buono e bravo “Tattina”. Egli sfidava il freddo, lottava contro la fame, ma il tabacco non lo cedeva a nessuno.

Di tedeschi ve n’erano anche di buoni e, se potevano, non visti, aiutavano, ma non c’era da fidarsi. Così ci consigliarono i soldati italiani. Era successo che i tedeschi per meglio identificare i sentimenti dei deportati si mettessero a parlare male di Mussolini e di Hitler. Se qualcuno abboccava, veniva subito mandato in una compagnia di disciplina, come dire a sicura morte. Se talvolta qualche sentinella o qualche capo-squadra si metteva a fare pernacchie al nome di Mussolini e di Hitler, io dicevo: Nien, Nien, buoni camerata. Per sfamarci avremmo mangiato i calcinacci e, se riuscivamo ad impossessarci di carote, rape, patate crude, le divoravamo con la stessa delizia come fossero state bistecche.

Durante uno dei tanti bombardamenti a tappeto, le baracche del nostro lager furono spazzate via. Fortunatamente noi in quel momento eravamo al lavoro e ci salvammo. Da quel giorno però cambiammo diversi campi e sempre più lontani dalla città. Anche per i tedeschi marcava male. Le code dei sinistrati ferme ai posti di rancio, diventavano sempre più fitte e lunghe. Un giorno trovandomi in un nuovo lager, vidi uno che mi sembrava di conoscere, mi avvicinai, e così fece lui. A stento ci riconoscemmo, tanto eravamo cambiati in pochi mesi. Era Aleardo Campani di Fornaci, rastrellato il 17 settembre 1944 a Borgo a Mozzano. Da allora egli fece ghenga con noi di Barga ed insieme ritornammo a casa. Così invece non col povero Terigi. Egli fu operato di appendicite all’Ospedale e noi nel pomeriggio della domenica l’andavamo a trovare. Dalla operazione si riprese grazie al suo fisico robusto. In quei giorno avemmo altri bombardamenti e seppi che Sergio era stato ferito ad una gamba. Al mio ritorno a Pedona, seppi che la ferita gli era andata in cancrena ed era morto a Berlino.

Di come andava la guerra, noi non avevamo notizie e nulla sapevamo delle nostre famiglie in Italia ma dalla sorveglianza che di giorno in giorno diminuiva e dal modo come i tedeschi s’erano messi a trattare bene russi e polacchi, capimmo che dovevano essere agli sgoccioli.

In quei giorni ci mandarono nei boschi ad abbattere piante i cui tronchi segati a due metri conficcavamo sulle strade in modo da ridurre lo spazio al passaggio di una sola macchina. Fu un accorgimento tattico sbagliato, perché le truppe in ripiegamento su Berlino, inseguite dai russi, trovando le strade ostruite, crearono tali ingorghi che si trasformarono in mucchi di cadaveri. In quella circostanza i tedeschi mi fecero tanta compassione, forse perché per la prima volta compresi che non erano molto intelligenti. Noi italiani eravamo di loro assai più bravi e capaci, specie nelle faccende pratiche. Ai tedeschi mancava l’estro, che noi avevamo.

Una mattina ai primi di aprile, usciti dalle baracche, non vedemmo più le guardie attorno ai reticolati. Piano, piano, in silenzio quasi in punta di piedi, arrivammo fino alla garitta della sentinella. Non c’era. Spingemmo il cancello di ferro, era aperto. Ci guardammo sorpresi, quasi increduli, poi in coro ci mettemmo a gridare pazzi di gioia: Siamo liberi! Siamo liberi! Fu un attimo di sosta e subito corremmo verso le cucine colla speranza di trovare qualcosa da mangiare. I più forti qualcosa arraffarono.

Uscimmo per andare incontro ai russi verso Berlino di dove distavamo una ventina di chilometri. Ci rincuorava il rombo del cannone che sentivamo sempre più vicino e vedevamo i proiettili esplodere lontani. Giunti in un villaggio, alcuni vecchi e donne stavano scavando trincee a zig-zag di protezione. Restate ci dissero, i russi saranno qui domani.

Con i russi cominciammo a mangiare e a fumare, ma da quel momento la smania di tornare a casa non ci diede più requie. Trascorremmo tutta la primavera e l’estate passando da un campo all’altro, in uno di questi trovammo Cervetti di Barga, capo baracca, che ci rifornì di sigarette. Nell’ultimo campo saremmo stati più di otto mila italiani, lo comandava un colonnello dei carabinieri coadiuvato da ufficiali dell’esercito e dell’arma anch’essi deportati dopo l’8 settembre.

Finalmente, come Dio volle, ai primi di ottobre del 1945 rientrammo in Italia con una lunga tradotta dal Brennero. Con Vergamini, Campani, Zeppolini il 23 di quel mese giungemmo a Lucca, di dove i compagni con un mezzo di fortuna proseguirono per Fornaci, mentre io andai ad attingere notizie dei miei, da mio zio Aldo Nardini in Via del Castellaccio. Il giorno dopo mio fratello Bruno venne a prendermi con la jeep americana di un soldato suo amico.

Ero nuovamente a casa, ma per riabituarmici mi ci volle. I nervi, le paure, il freddo, la fame mi avevano completamente scassato.

Vittorio Capecchi

Terigi Sergio di Giuseppe e di Benassi Anna, nato a Barga il 18 luglio 1921. Deceduto a Berlino (Germania) il 7 maggio 1945 a seguito di ferite riportate durante un bombardamento aereo alleato. Fu rastrellato il 12 settembre 1944 a Gragliana, frazione del Comune di Fabbriche di Vallico, assieme ad altri giovani di Fornaci.

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Commenti

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  1. R: QuestaVittorio Capecchi, rastrellato ed internato. Ecco la sua storia
    Questa era la seconda…ora guardiamo come va a finire la terza. Che mondo di merda.

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