Lo sviluppo fornacino legato all’emigrazione (Terza e ultima parte)

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Riprendiamo dal termine della Grande Guerra e dopo insediamento della “metallurgica” fino ad arrivare ai giorni nostri.

Al termine del conflitto, tuttavia, con il ritorno ad una economia di pace, l’occupazione scese vertiginosamente: nel 1917 erano state raggiunte le 2.300 unità, con punte, utilizzando i cosiddetti “giornalieri”, tra le 4 e le 5 mila, ma l’anno dopo gli occupati erano già scesi intorno alle 900 unità, per giungere alle 240 del 1919. I licenziamenti in massa di quel dopo-guerra, tenuto conto anche del contesto socio-economico nazionale, generarono diverse agitazioni sociali. Nel settembre 1920 ci furono degli scioperi che coinvolsero persino gli impiegati dello stabilimento. Purtroppo, per parecchi lavoratori, non potendo essere ricollocati sul territorio, la via dell’emigrazione si prospettò, ancora una volta, quasi come una scelta obbligata. Qualche lavoratore prese quella decisione anche per le persecuzioni fasciste.
Durante il seguente anno, nuovo denaro fu investito nella fabbrica e ciò ebbe concrete ripercussioni anche sulla manodopera che, dai 150-180 addetti del biennio 1921-1922, passò alle quasi 1.400 unità del 1924. Moltissime, però, anche in questo caso, erano state “assunzioni a termine”. Infatti, avveniva che questi lavoratori, oggi definibili come “precari”, ogni inizio turno, giorno dopo giorno, si accalcavano all’ingresso della SMI, nella speranza, se pur temporanea, di una chiamata di lavoro.
Ma già alla fine di quel 1924, un’altra ondata di licenziamenti e ingiunzioni di dimissioni, fecero di nuovo e drasticamente diminuire gli occupati. In quella circostanza, però, non ci furono tumulti da parte delle maestranze che, ormai, fiaccate dalla violenza del nuovo regime, avevano perso energia e speranza per ogni forma di lotta.
Con l’avvento del fascismo, eliminate le libertà sindacali e le organizzazioni operaie, aumentarono i privilegi dei gruppi finanziari, industriali e agrari e ciò portò all’interruzione di una qualsiasi utopica collaborazione fra le classi sociali. In più, il nuovo regime, incapace di uscire dal binario di un’industria ultra protetta, arrivò ad adottare una politica autarchica che penalizzò, oltremodo, tutta l’economia italiana. Anche la politica dell’emigrazione, se si eccettuano le poche migliaia di agricoltori mandati nelle colonie africane, durante il cosiddetto “ventennio” subì una fortissima contrazione. Anzi, tramite una legge ad hoc, fu pure stabilito che, salvo motivi eccezionali, nemmeno all’interno della Penisola gli italiani avessero la libertà di trasferirsi in altro Comune o Provincia ed in pratica, sia la migrazione interna che gli espatri, si azzerarono quasi del tutto. Naturalmente, anche se i numeri furono piuttosto bassi, qualcuno riuscì ad emigrare clandestinamente, mentre altri furono invitati da parenti od amici espatriati da tempo che, nella maggior parte dei casi, gli avevano procurato un impiego.
Negli Anni ’20, tra coloro che avevano raggiunto un Paese estero, vi furono le sorelle Livia (classe 1901, sposata con Guglielmo Arrighi) e Clara Togneri (sposata con Pietro Cipolli). Espatriarono tutti negli Stati Uniti.
Nel decennio successivo Galliano Bernardini si recò a Campinas, in Brasile, mentre a fine Anni ‘30, a Boston, andarono Giovanni Stefanini e la moglie Vilma.
Nel frattempo, a metà Anni ’30, l’aumento della produzione bellica, conseguenza della guerra coloniale per la conquista di un presunto “impero”, riportò gli addetti della fabbrica fornacina intorno alle 2.800 unità. Intanto si stava avvicinando la Seconda Guerra Mondiale, che, con nuove importanti commesse da parte dello Stato, portò il numero degli addetti dai 480 del 1938 agli oltre 2.100 del biennio 1939-1940. Ma con la firma dell’armistizio nel settembre 1943 e l’avvicinarsi della guerra nella Valle del Serchio, la manodopera scese a circa 380 unità, azzerandosi del tutto in seguito ai bombardamenti anglo-americani dell’estate 1944 e al trafugamento di diversi macchinari da parte dei Tedeschi. E così, come parecchi disoccupati italiani, anche dal Comune di Barga partirono uomini e donne, volontariamente in alcuni casi e coattivamente in altri, per andare a lavorare nella Germania nazista (furono soprattutto contadini, muratori e manovali).
Una ripresa dell’occupazione ci fu al termine della guerra. Già nel 1945 gli addetti raggiunsero la cifra di 1.203 unità, mentre l’anno successivo passarono a 2.080. Ma intorno al 1950, quando molti fornacini andarono negli Stati Uniti, in Brasile, in Australia e in diverse regioni della penisola, da Fornaci si verificò una nuova migrazione. In effetti le prospettive di lavoro, se si eccettuano quelle offerte dalla SMI, erano ancora piuttosto scarse.
Nell’ottobre 1949 Ivana Sperini raggiunse il marito Ettore Nucci, a Melbourne, in Australia. Ettore era partito nel febbraio dello stesso anno. Si erano sposati a Fornaci nel 1948. La prima figlia, Catia, nacque nella città australiana all’inizio del 1952, mentre Nerio, il secondogenito, nel 1959. Nel 1964 tutta la famiglia rientrò in Italia.
Alla fine degli Anni ’40 emigrarono anche Alfonso Tosi (a Montevideo in Uruguay), il quale fu raggiunto dalla moglie Wanda Benvenuti nel 1950, mentre in Brasile, era il 1948, si ricongiunsero con Bruno Stefani la consorte Leda Diversi e la figlia Maria. Dieci anni dopo, insieme alla moglie Maria Pierantoni e al figlio Gabriele, Nemo Nemi espatriò nel piccolo Lussemburgo…
Nei decenni successivi la situazione occupazionale ebbe momenti di alti e bassi, ma mai come era avvenuto nel passato. Nel corso della grande crisi economica, che ha colpito il mondo intero all’approssimarsi del 2008, la produzione dello stabilimento fornacino ha subito una forte contrazione (con punte del meno 40%), ma, grazie all’utilizzo degli ammortizzatori sociali, la forza lavoro interna è diminuita, compresi pensionamenti e prepensionamenti, meno del 10%. Di questa situazione economica ne hanno sofferto particolarmente le piccole società di servizio esterne. Alcune sono state costrette “solo” a licenziare una parte dei propri dipendenti, mentre altre a chiudere definitivamente. Dal 2011, in seguito a una ulteriore involuzione dell’economia e all’aumento delle tasse, anche il commercio locale ha patito una indiscussa flessione.

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